Devo essere sincero: non mi aspettavo molto, non credevo che la pazzia dei peluche potesse essere interessante. Poi però mi è capitata l’occasione di passare da queste parti e ho colto la palla al balzo; d’altronde non si può dire no al fascino dell’urbex in solitaria. E se c’è una cosa che può caratterizzare un ambiente urbex è proprio la presenza di peluche, soprattutto se legati ad un periodo storico già fuori moda. È chiaro che il pianoforte, la carrozzina, il biliardo e la macchina da cucire, singer ovviamente, garantiscono un fascino decisamente più decadente, ma il peluche non è da sottovalutare.
Poi all’uscita mi sono dovuto cambiare d’abito perché dopo mi aspettava un evento mondano e non potevo presentarmi con i pantaloni da urbex, sporco e le ragnatele sulla maglia. Non avendo un camerino a disposizione mi sono visto costretto ad arrangiarmi sul sedile posteriore (la zona non è molto trafficata) e mentre mi abbottonavo i pantaloni -puliti- è saltato in aria il bottone a clips. Le imprecazioni sono ancora lì che rimbalzano in macchina.
Ho deciso di definire questo collegio segreto per un motivo un po’ bizzarro e che forse esula dalle caratteristiche intrinseche della location; perché non è affatto segreto, ma nasconde un’insidia. Prima definiamo la situazione: siamo in un piccolo paese desolato, ma talmente desolato che alla richiesta di un bar per un caffè un local, che girava stancamente in bicicletta in cerchio senza apparente destinazione (noia mortale la domenica), ci ha suggerito di andare nel paese vicino (una roba che a raccontarla adesso mi sembra assurda); che qui i foresti non sono graditi (il corsivo è una mia libera interpretazione). Comunque aveva ragione, di bar aperti nemmeno l’ombra e siamo stati costretti ad avanzare senza caffè (per il giubilo dei miei compagni di avventura).
Perché segreto? Semplice, uscendo andiamo in direzione della macchina (nascosta in un parcheggio vicino) e rimaniamo sorpresi da un gruppo di 4 persone con un’aria tipica, e facilmente riconoscibile, che mangiano in piedi dei panini con il bagagliaio della macchina aperta; con un abbigliamento che non avrei definito della domenica. Un paio di occhiate furtive e viene spontanea la domanda: Urbex? Ovviamente si, ci si conosce tutti, e scatta il racconto della nostra domenica in giro per il mondo abbandonato. Lì abbiamo trovato l’allarme, dall’altra parte c’erano i carabinieri, dall’altra parte ancora hanno chiuso con un lucchetto nuovo e siamo dovuti passare dalla finestra. Questo invece bellissimo, avete visto che meraviglia le stanza affrescate nella parte vecchia? Io e Lorena ci siamo guardati, una riflessione veloce e, nonostante la sua titubanza, ci siamo visti costretti (io ho costretto lei) a rientrare per visitare la parte segreta.
Dopo Van Gogh (2021) e Klimt (2022) venerdì 12 Gennaio al Palavela di Torino è stata la volta di Claude Monet diventare protagonista con le sue opere della nuova produzione internazionale di Show on Ice, realizzata da Dimensione Eventi con la collaborazione dell’Associazione Culturale Dreams.
In pista, sulle tele disegnate da Monet, si sono alternati campioni internazionali di pattinaggio, atleti fantastici provenienti da tutto il mondo che hanno sorpreso il pubblico con evoluzioni al limite della fisica e delle possibilità umane: Keegan Messing, da Anchorage (Alaska), due volte campione Grand Prix, campione nazionale canadese, Polina Edmunds, da Santa Clara (California), campionessa Four Continents e Usa Classic, Michail Shaidorov, dal Kazakistan, medaglia di bronzo della Coppa di Cina 2023, due volte tra i migliori del Four Continents e tre volte campione nazionale. Tra i protagonisti sui pattini anche la coppia italiana composta da Elisabetta Leccardi e Mattia della Torre, già nel 2022 in Klimt on Ice (il loro Tango ha estasiato il pubblico), la lettone Angelina Kucvalska, la svizzera Yasmine Kimiko Yamada, il francese Clement Pinel, conosciuto in tutto il mondo per il suo super flip, il salto mortale all’indietro con il quale ha raccolto il boato e l’applauso del pubblico.
Fra le novità dell’edizione 2024 la presenza di Sabino Gaita, tenore stabile al Teatro Regio di Torino dove si esibisce da oltre vent’anni, che ha coinvolto il pubblico sulle note della Turandot di Puccini.
Villa Castagnola riprende il nome dei proprietari originali, una famiglia di nobili banchieri, e venne costruita all’inizio del secolo scorso. Fu successivamente ceduta alla famiglia Quaglia, che operava nel settore della ceramica e del laterizio, e cambiò nome, ma dopo l’8 settembre 1943 venne espropriata dai nazisti. La Famiglia Quaglia ritornò in possesso della Villa fino alla morte, nel 1972, del commendatore Eugenio Quaglia. Nella seconda metà degli anni ’70 venne comprata dalla società Castagnola che riprese il nome originale; purtroppo a seguito del fallimento, nel 1999, la Villa è in stato di abbandono, c’è un curatore fallimentare che purtroppo non è riuscito a vendere la proprietà.
La mia esplorazione di Villa Castagnola è ormai datata 2022. Ho iniziato con un volo d’ispezione con il drone, quindi ho salutato la vicina di casa (uscita sul terrazzo a controllare) e ho chiesto informazioni: gentilmente mi ha detto di fare attenzione e mi ha raccontato degli incendi che hanno reso pericolosa la struttura (in realtà non tanto). Ho fotografato con tutta calma, ma al momento di andare via ho sentito delle voci: in urbex è sempre particolare il momento in cui si percepisce di non essere soli. Sono uscito allo scoperto e ho visto una ragazza che raccontava la storia della Villa a due turisti (non saprei come altro definirli). Mi sono presentato e in logica conseguenza aggiunto alla comitiva: non mi era mai capitato di fare una visita turistica illegale con tanto di guida in un luogo abbandonato.
Seconda e ultima parte di racconto di un matrimonio nella meravigliosa cornice di Palazzo Fauzone Relais, con la collaborazione di Marcos Atelier. Questa volta il modello è l’aristocratico e affascinante Paolo che indossa un completo blu elettrico di Manuel Ritz. Questa sessione è stata decisamente più complicata in quanto la stanza non era adatta al ritratto maschile e non avevo a disposizione nessuna luce flash in aiuto: mi sono visto costretto ad utilizzare esclusivamente la -poca- luce proveniente dalla finestra e ad alzare gli iso per compensare la mancanza di luminosità. Da Palazzo Fauzone è tutto, non mi rimane che ringraziare Paolo per la disponibilità. :)
Spiegare bene come e perché mi risulta complicato. Queste immagini sono estrapolate da una giornata dedicata al racconto di un matrimonio nella meravigliosa cornice di Palazzo Fauzone Relais, con la collaborazione di Marcos Atelier. Il vestito è di Carlo Pignatelli, il modello è il bravissimo e bellissimo Tommaso Merlino. Nelle mie pagine non troverete la fortunata in quanto mi sono dedicato esclusivamente allo sposo. In queste poche righe vorrei ringraziare Barbara, la padrona di casa, Tommaso per l’incredibile pazienza e tutto il team di stilisti, truccatori e, perché no, di Fotografi; in particolare Alex di PhotoStudio 3D con il quale ho realizzato queste immagini.
Del Dancing Paradiso ho sentito tante cose ultimamente e devo ammettere che io non ho nemmeno sfiorato quell’empatia e quella meraviglia che ho letto in quasi tutte le recensioni (perdonatemi il termine). Sono un animo insensibile. Per me il dancing è stato confusione, ecco, confusione è il termine che rende meglio l’idea: dal punto di vista fotografico quasi fastidioso, claustrofobico, un insieme di oggetti alla rinfusa, nel disordine, nel degrado e nel buio quasi totale. Certo, c’è un mondo dietro, la vita della signora Paola si intreccia e si divide fra questi ricordi, fra questi pezzi di vita; purtroppo non sento la voglia di memoria che ascolto da tante parti.
Ammetto di aver qualche sintomo di distacco dai sentimenti, ma non credo di essere un replicante come Roy Batty: eppure nonostante fra queste pareti si siano raccontate storie d’amore, di amicizia, di vita, di tempo passato insieme, nonostante ci sia un intreccio di emozioni forti (anche senza andare vicino alle porte di Tannhäuser), anche il Dancing Paradiso è giunto al termine vita. Peccato, ma anche no: qualche volta forse è meglio non guardare indietro.
Quando si parla di viaggio la mia mente torna sempre al concetto di piazza, mi piace legare le città che visito alla loro piazza più importante. E quasi sempre i ricordi si perdono in mezzo a questi spazi immensi, per esempio non riesco a dimenticare Praça do Comércio a Lisbona oppure Piazza Ducale a Vigevano (e vorrei tornarci). Se invece penso a Verona la mia memoria non è legata a Piazza Bra, dove per intenderci si trova l’Arena, ma per uno strano gioco della memoria sono affascinato da Piazza delle Erbe. Probabilmente perché nel mio primo stop a Verona ero rimasto colpito dal fermento, dai giovani, dai locali e dall’allegria che avevo riscontrato fra i palazzi di questa piccola (se paragonata alle altre), ma meravigliosa piazza. Ma in fondo è il cuore di Verona, la più storica, qui si trova l’antico palazzo del comune, Palazzo Maffei, la torre dei Lamberti, la colonna con il leone di San Marco e la celebre fontana sormontata dalla statua denominata Madonna Verona. E quando la scorsa estate sono tornato, con in mente la fotografia, la mia prima idea era proprio di fotografarla in notturna. Ho dovuto attendere, perché al mio arrivo la confusione del mercato era ancora molto presente, ma sul tardissimo (le foto sono scattate a mezzanotte) sono riuscito a fotografarla come nella mia mente avevo immaginato.
In questi giorni sono stati nominati i vincitori del Sony World Photography Awards 2024 e nella categoria Natural World & Wildlife ha trionfato il britannico Ian Ford con una incredibile immagine di un giaguaro che azzanna un caimano. La bellezza di questa foto si definisce per via di un’illuminazione praticamente perfetta (forse troppo perfetta) e per il fatto che il giaguaro rivolge lo sguardo al fotografo, come se recitasse una parte.
Quando guardiamo le foto ormai il nostro primo pensiero è subito rivolto all’elaborazione digitale e nell’ultimo periodo ho visto, anche in ambiti di basso livello, foto meravigliose, momenti irripetibili catturati con estrema facilità e il sospetto ormai è sempre presente. E questo sospetto rovina e rende poco credibile qualsiasi immagine, si è persa la certezza del legame tra fotografia e realtà. Come sostiene Dario Bonazza basterebbe avere l’onestà di dichiarare se si tratta di una foto oppure di una sintografia, ma nel nostro mondo questa onestà non è nemmeno auspicabile; serve al più presto una funzione digitale, una firma non cancellabile che permetta subito di comprendere l’origine di un’immagine, che certifichi che quella fotografia è vera, non creata dal computer. E se questo non succederà ci troveremo a navigare in un mondo di falsità e sospetto.
Un paio di settimane fa, con il gruppo vacanze MondovìPhoto, siamo andati a Camera, Torino, per visitare le mostre di Gerda Taro/Robert Capa e del mio quasi concittadino Michele Pellegrino. Michele abita a Chiusa Pesio e mi ricordo, qualche anno fa, di aver avuto l’onore di accompagnarlo a casa dopo un pomeriggio trascorso insieme: lui era l’ospite d’onore per l’apertura della collettiva del nostro gruppo fotografico e mi chiese uno strappo per tornare dalla moglie. E quindi mi pare corretto dedicare due foto alla mostra del fotografo più conosciuto della nostra provincia: rigorosamente in bianco e nero. La mostra è aperta sino al 14 Aprile, da non perdere.
Ieri ho raccontato della mia esperienza di CronoDuello al Monastero dei Benedettini di San Nicolò l’Arena a Catania, ma non avevo ancora pubblicato le 5 foto scartate in fase di selezione. In realtà poco fa ho mandato in onda Il gatto dagli occhi storti e adesso vi propongo le restanti 4 foto eliminate. Niente di bellissimo, ma d’altronde se non le ho prese in considerazione un motivo ci deve essere, no?