Del Dancing Paradiso ho sentito tante cose ultimamente e devo ammettere che io non ho nemmeno sfiorato quell’empatia e quella meraviglia che ho letto in quasi tutte le recensioni (perdonatemi il termine). Sono un animo insensibile. Per me il dancing è stato confusione, ecco, confusione è il termine che rende meglio l’idea: dal punto di vista fotografico quasi fastidioso, claustrofobico, un insieme di oggetti alla rinfusa, nel disordine, nel degrado e nel buio quasi totale. Certo, c’è un mondo dietro, la vita della signora Paola si intreccia e si divide fra questi ricordi, fra questi pezzi di vita; purtroppo non sento la voglia di memoria che ascolto da tante parti.
Ammetto di aver qualche sintomo di distacco dai sentimenti, ma non credo di essere un replicante come Roy Batty: eppure nonostante fra queste pareti si siano raccontate storie d’amore, di amicizia, di vita, di tempo passato insieme, nonostante ci sia un intreccio di emozioni forti (anche senza andare vicino alle porte di Tannhäuser), anche il Dancing Paradiso è giunto al termine vita. Peccato, ma anche no: qualche volta forse è meglio non guardare indietro.