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Villa dei Ventagli

POSTED ON 27 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX, mansion

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Raccontare e descrivere Villa dei Ventagli non è affatto semplice, perché si tratta di un’esperienza unica, come direbbe Battisti, un tuffo dove l’acqua è più blu, un viaggio che ti porta in un luogo anche più affascinante del solito. Non voglio soffermarmi troppo sulle circostanze del perché, voglio partire subito con la storia. Sono arrivato al mattino presto, il tempo a mia disposizione era pochissimo. Alle 6.30 ero davanti al cancello, e alle 8 avrei dovuto essere già fuori. Il tempo è tiranno, la sicurezza una priorità: il luogo è controllato e molto in vista, l’esplorazione deve essere discreta, quasi invisibile. Il giardino è completamente incolto, e già da fuori si capisce che la casa è in stato di abbandono almeno apparente. L’ingresso non è semplice, si scavalca un cancello alto, ma con velocità di esecuzione e un po’ di coraggio, in pochi secondi, sono all’interno.

Una volta dentro, mi dirigo subito verso la stanza principale, la sala padronale, e il suo fascino mi rapisce. È proprio come l’avevo immaginata, come l’avevo vista nelle foto. Fuori è ancora buio, l’alba si sta facendo strada, e mi rendo conto che la luce cambierà rapidamente, diventando più intensa di almeno due stop. Scatto alcune foto di sicurezza per non perdere nulla, e salgo le scale. Arrivato al secondo piano, mi accorgo subito che la luce è più forte. Il sole è uscito, e la stanza appare con una chiarezza che mi permette di notare ogni dettaglio. La prima cosa che cattura la mia attenzione è uno studio, un po’ disordinato: sul tavolo c’è un catalogo di figurine Liebig. Si tratta di una raccolta storica, pubblicata ininterrottamente dal 1872 al 1975: non ne avevo mai viste così tante insieme, una meraviglia. E poi quella scimmia, non ho parole per descriverla.

Le stanza da letto è altrettanto affascinante, forse anche di più, e il volto di un felino su un tappeto mi osserva dalla balaustra delle scale. Ridiscendo, fermandomi a fotografare una mensola con un coniglio che sembra quasi reale. Arrivo all’ingresso, dove la porta principale è sprangata. Fotografo i quadri con i ventagli appesi alle pareti: ventagli d’epoca, molto probabilmente, con solo il pavese dentro una cornice. Una statua in legno, di provenienza esotica, mi osserva con un ghigno di disprezzo, scatto una foto alla veranda, i cui colori sono caldi, dolci e intensi grazie alla luce dell’alba che sta ormai filtrando dalle vetrate. C’è anche un bagno curioso, con un lavandino verde e uno stanzino con il telefono, dove probabilmente la padrona di casa, alla fine del secolo scorso, trascorreva molto tempo attaccata alla cornetta.

Il cuore pulsante della villa, però, è senza dubbio la sala. Addirittura cinque grandi finestre illuminano la stanza, e ovunque ci sono ventagli: appesi alle pareti, in vetrina, sopra un tavolo, attorno al caminetto, sulle sedie; al centro della stanza un mobiletto con le ruote, pieno di alcolici, attira la mia attenzione (non potrebbe essere altrimenti). Mi concentro e scatto quante più foto possibili, anche troppe, cercando di catturare ogni particolare e ogni ventaglio. Il tempo scorre veloce, il limite orario si avvicina, devo andare. Non sono del tutto soddisfatto delle foto, ma mi accontento della luce che sono riuscito a sfruttare e dei colori che ho catturato. Ho fretta.

Prima di uscire, noto una tartaruga sotto una sedia, apparentemente a riposo, ma con uno sguardo di sfida, sfrontato, fastidioso. Sposto leggermente la sedia, la fotografo, e poi fotografo nuovamente la stanza, un’ultima volta. Finalmente, lascio la villa, esco dall’algoritmo. Sono fuori in giardino, non c’è nessuno. Scavalco nuovamente il cancello e, mentre mi allontano, vedo un signore che mi saluta gentilmente. Ricambio il saluto, buongiorno, e salgo in macchina. E’ stata un’esplorazione breve, ma intensa, emozionante e affascinante. La villa racconta la storia di una persona, una collezionista, che per la sua passione avrebbe fatto qualsiasi cosa: figurine, ventagli, bamboline strane, oggetti di ogni tipo. Una persona che amava raccogliere e custodire, che amava il bello. Mi allontano, sperando che questa villa, come tante altre, non finisca nell’oblio dei famigerati urbexer e nelle mani di chi, purtroppo, cercherà di rubare e distruggere. Ad Maiora.

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La Villa del Patriota

POSTED ON 25 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX, mansion

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La Villa del Patriota è una di quelle esplorazioni urbex che lasciano il segno. Mi era stata consigliata con entusiasmo, e non a caso: questa villa incarna perfettamente il fascino della decadenza e dell’antico. È una dimora molto datata, e lo si percepisce subito.

Appena entrati si viene immersi in un passato lontano. Gli oggetti rimasti risalgono ai primi del Novecento, quindi a oltre un secolo fa. La villa deve il suo nome alla presenza, nella stanza principale, di un quadro raffigurante Mazzini e Garibaldi. Quella stanza, vista in precedenza in alcune foto, è decorata con una tappezzeria azzurra a quadretti che ricorda le tovaglie tipiche delle case di campagna italiane. Un dettaglio semplice, ma difficile da dimenticare.

Ho esplorato ogni angolo della casa con attenzione. Ogni ambiente sembrava raccontare una storia. Il bagno conserva ancora un sanitario dei primi anni del secolo scorso, le piastrelle sono quelle di una volta, e la sala da pranzo è ricca di oggetti antichi: una cartina del Touring Club Italiano (con la pubblicità della benzina Lampo) e l’annuario generale 1932-33, scatole di tonno d’epoca, vecchi biglietti da visita, lettere e volumi antichi. Alcuni di questi oggetti non li ho fotografati, per rispetto della privacy, vista la presenza di nomi e dettagli personali.

Poco prima di uscire ho avuto una strana sensazione, come se mancasse qualcosa. Un ricordo sfocato, ma insistente, mi riportava alla stanza con la famosa tappezzeria azzurra. La mia memoria, solitamente labile, ha avuto la meglio sulla fretta. Così ho deciso di tornare indietro e controllare di nuovo. Ho perlustrato la casa più volte, senza successo. Eppure quella stanza doveva esserci, ero sicuro. A un certo punto ho pensato alla scala secondaria, mi era sfuggita. In cima, due stanze. Una era quasi vuota, conteneva solo un baule pieno di fogli, libri, spartiti musicali. L’altra, invece, era esattamente quella che stavo cercando: non avrei mai pensato fosse così isolata.

Quella stanza è il cuore della villa. Anche se in condizioni precarie, sporca, con mobili rotti, muffa sul pavimento e oggetti sparsi, conserva un’atmosfera delicata. Sulla parete troneggia il quadro con Mazzini e Garibaldi (pensiero ed azione) che dà il nome alla casa. Il disegno sembra ricalcare uno stile patriottico tipico di fine Ottocento, in cui Mazzini e Garibaldi (o altri padri fondatori dell’Unità d’Italia) vengono inseriti in una cornice decorativa con alloro e strette di mano, a celebrare l’unione e l’ideale nazionale. Queste stampe erano comuni nelle case italiane tra fine ‘800 e primo ‘900, soprattutto in ambienti borghesi o popolari con forti sentimenti risorgimentali. Non è una delle immagini più famose in assoluto, ma rientra in un filone molto diffuso: illustrazioni e stampe commemorative realizzate dopo l’Unità d’Italia, spesso distribuite in occasione di anniversari o ricorrenze. La litografia originale, datata 1874, è in mostra al Museo del Risorgimento di Torino.

Intorno, un insieme eterogeneo di oggetti: un paio di scarpe, un ombrello rotto, vecchi libri, una croce, due bauli devastati, un brutto uccello impagliato. Ogni dettaglio racconta un frammento di passato. Uno dei documenti trovati riportava la data: 1919. Si trattava di un quaderno di scuola elementare, scritto da una bambina, un dettato sull’acqua. Questo mi ha fatto riflettere su chi potesse aver vissuto lì. Forse persone che avevano conosciuto direttamente il periodo post-unitario, o che ne avevano comunque conservato una memoria forte. È affascinante pensare che queste stanze siano l’eco di vite lontane, eppure ancora presenti nei segni lasciati tra quelle mura.

È stata una visita intensa, ricca di suggestioni. Un frammento di storia e memoria sospeso nel tempo, difficile da dimenticare. Oggi è il 25 Aprile e si festeggia la liberazione dalla tirannia nazi-fascista, ma il patriota mi ha fatto pensare a questi oltre 150 anni di Unità d’Italia: che sia il Risorgimento oppure la Liberazione, per guardare al futuro con fiducia è fondamentale non dimenticare il passato e le persone che hanno dato la loro vita per la Patria.

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La casa dei Fragili

POSTED ON 22 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX

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La Casa dei Fragili è uno di quei luoghi che lasciano addosso qualcosa. Non tanto per l’architettura – ordinaria, spoglia, funzionale – ma per ciò che raccontano, in silenzio, gli oggetti abbandonati. Una vecchia casa famiglia, ormai vuota, che un tempo ha ospitato persone con disabilità. Non so molto della sua storia precisa, ma basta entrarci per capire che qui la vita è stata tutto fuorché semplice.

La struttura è grande, su due piani, ma già da fuori si capisce che qui il tempo scorre inesorabile. Muri scrostati, finestre rotte, polvere, intonaco sul pavimento, rampicanti che si arrampicano ovunque. Dentro, invece, è tutto fermo, come se qualcuno avesse lasciato tutto da un giorno all’altro. Le sedie a rotelle sono ovunque, segni evidenti di chi qui ci viveva ogni giorno. Il piano superiore ospitava probabilmente le camere. Di quello spazio resta poco: letti smontati, arredi semplici, qualche brandello di tenda che si muove appena passa una corrente d’aria. Ma è il piano terra quello che colpisce di più. È qui che si concentra la parte più vissuta e vera della casa. C’è la cucina, ancora con qualche stoviglia sparsa sui mobili. Una piccola cappella, semplice ma toccante, con un crocifisso di legno, un altare, una colonnina. Probabilmente un angolo di pace per chi aveva bisogno di raccogliersi, in silenzio, e pregare.

Poi ci sono altre stanze, più personali. Una sembra fosse usata per i giochi: un puzzle mai finito, una tazzina di caffè, un vecchio televisore, qualche oggetto per passare il tempo. È impossibile non pensare a chi ci passava le giornate, magari aspettando che qualcuno venisse a trovarlo. O forse cercando solo di riempire il tempo. La stanza che resta più impressa, però, è il salone. Un grande spazio, pieno di dettagli. Un vecchio giradischi, due tavoli enormi, una statua della Madonna, quadri appesi alle pareti, un televisore, poltrone, le foto ricordo, un divano ormai logoro, una sedia tipica degli anni ’70. È una stanza che parla di socialità, di momenti condivisi, di normalità cercata con semplicità. E lì accanto, un’altra piccola stanza con un pianoforte, che non suona più, ma ancora elegante nella sua forma. Anche qui quadri, per lo più religiosi, che sembrano voler dare un senso di conforto, di presenza.

Mentre scattavo, ho cercato di mantenere un approccio rispettoso. Non volevo documentare in modo freddo, ma nemmeno drammatizzare. Ho lasciato parlare le stanze, gli oggetti. Ho cercato la luce giusta, la composizione più chiara possibile. Ho selezionato 54 foto: mi sembrava il giusto equilibrio per documentare in modo completo. Quello che resta dopo una visita alla Casa dei Fragili non è solo la curiosità per un luogo abbandonato, ma il pensiero delle vite che ci sono passate. Di chi, con difficoltà e silenzi, ha vissuto giornate tutte uguali, forse sperando in una visita, in una novità, in una piccola gioia, aspettando il giorno della gita. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Le immagini parlano da sole. Raccontano una realtà dura, fatta di attese, di piccole abitudini e forse anche di momenti sereni. Ma soprattutto, raccontano una storia che vale la pena ricordare.

Niente dura sempre, poche cose a lungo; varia solo il loro modo di essere fragili, il loro modo di finire, ma tutto ciò che ha avuto un inizio avrà anche una fine.
– Lucio Anneo Seneca

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Chiesa di Sant’Antonio

POSTED ON 19 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX, church

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La chiesa di Sant’Antonio si trova quasi nascosta tra le colline, lungo una strada poco frequentata, una strada di campagna, tutta curve e lontana dal mondo. Non è visibile dalla strada, quindi ho parcheggiato abbastanza lontano e ho iniziato a salire su una piccola, ma ripida, collina. Il terreno era irregolare e pieno di rovi e alberi, e quando sono arrivato in cima avevo il fiatone per la fatica. Nonostante il sole, il freddo era pungente, come se l’aria gelida di febbraio mi volesse tenere ancorato al terreno. Ma appena l’ho vista, tutta stanca e abbandonata, mi sono sentito subito attratto da quel posto solitario (avrei detto, ironicamente, dimenticato da Dio).

Le mura erano rovinate, lesionate in più punti, e il pavimento era pieno di calcinacci e detriti. Il soffitto, invece, era ancora intatto, anche se crepato in alcuni tratti, ma restava sorprendentemente bello. L’interno era sporco e polveroso, ma l’altare, anche se logorato dal tempo, e i dettagli del soffitto decorato si vedevano ancora. La luce del sole filtrava attraverso la porta principale e una laterale, creando un interessante gioco di ombre sulle pietre e sul pavimento. Il silenzio che c’era dentro dava un senso di calma, di pace interiore, come se il tempo fosse sospeso. Non so quanto tempo ancora resisterà, ma quel che resta oggi della chiesa è un pezzo di fede e di passato che, lentamente, sta svanendo.

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Villa Libarna

POSTED ON 16 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX, mansion

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Villa Libarna, conosciuta anche come la villa degli otto comignoli (ma quel giorno ero senza drone), è un enorme palazzo abbandonato che si trova in Valle Scrivia. Non è certo una meta che vale un viaggio apposta, ma se si è in zona, una tappa ci sta. Tra rovine, ristrutturazioni mai finite e stranezze architettoniche, qualcosa da vedere e fotografare non manca.

Ci sono stato due volte. Alla prima mi sono infilato dentro per esplorare tra stanze spoglie e corridoi pieni di nulla e polvere. L’edificio porta i segni di un restyling moderno – di quelli che iniziano male e poi finiscono anche peggio – che ha tolto fascino all’originale senza riuscire a regalarne uno nuovo. Nonostante tutto, qualcosa colpisce: alcuni soffitti affrescati ancora ben visibili, realizzati dal pittore locale Clemente Salsa (1885-1979), scritte e graffiti sparsi ovunque, e soprattutto tre bagni che ti fanno dire: aspetta un attimo, cos’ho appena visto? In uno c’è perfino una stranissima vasca in marmo che sembra finita lì per sbaglio, un pugno in un occhio. E poi ci sono le ali, già le ali. Le chiamo così, ma in realtà si tratta un brutto graffito con due ali d’angelo: molti si mettono in posa per il classico selfie alato. No comment.

Alla seconda visita mi sono deciso a cercare meglio (grazie a un suggerimento dal basso). E per fortuna: al primo piano, ben nascosta (si scherza), c’è una piccola chiesa interna. Nella prima esplorazione me l’ero proprio persa (colpa della solita fretta). È in cattivo stato, ma fa ancora un certo effetto. Il soffitto, per quanto segnato dal tempo, è bello e decorato. L’atmosfera lì dentro è un po’ strana: sembra di essere in un luogo sacro, ma trascurato, come se fosse stato chiuso all’improvviso e lasciato lì a se stesso. Un mix tra solennità e decadenza, di sacro e profano, antico e moderno, che ti fa fermare in silenzio, giusto il tempo di respirare un’aria diversa.

Villa Libarna è così: un posto pieno di contrasti. Rovinata ma interessante, alterata ma ancora in parte affascinante. Non è il classico luogo da cartolina, è un vuotone, ma se ti piacciono i luoghi abbandonati, le storie lasciate a metà e gli ambienti fuori dal tempo, allora un giro vale la pena. Io ci sono tornato due volte, e non escludo una terza. Scherzavo, non ci sarà una terza.

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La chiesa del cielo

POSTED ON 11 Apr 2025 IN Reportage     TAGS: URBEX, church

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Era il 2020 quando mi trovai per la prima volta davanti a quella piccola chiesa abbandonata, accanto al palazzo che avevo chiamato Il Cielo all’improvviso. La porta era chiusa. Non c’era modo di entrare. L’esplorazione finì lì, lasciando una parte in sospeso.

Cinque anni dopo, nel 2025, ci sono tornato. Questa volta sapevo che la porta sarebbe stata aperta. Finalmente si poteva accedere. La chiesa è minuscola, l’interno completamente spoglio. C’è solo un altare, danneggiato in più punti, e un paio di lapidi incassonate nelle pareti, ingiallite dal tempo. Dentro regnava un silenzio assoluto. Fuori, sulla piazza accanto, si sentivano le voci allegre di bambine che giocavano. Ridevano, correvano. Io, invece, ero immobile, cercavo di non fare alcun rumore. Non solo per rispetto alla sacralità del luogo, ma per non farmi scoprire: qualsiasi suono avrebbe potuto essere percepito all’esterno. Quel contrasto tra la vita fuori e il vuoto dentro rendeva tutto stranamente irreale, quasi inquietante.

Ho scattato sei foto. Poche, ma bastano. Rappresentano l’ultimo pezzo mancante dell’esplorazione cominciata cinque anni prima: il cerchio, finalmente, si è chiuso.

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