Villa Richelmy

POSTED ON 21 Mar 2022 IN Reportage     TAGS: urbex

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Oggi quella che noi possiamo considerare la collina di Torino è la porzione che forma un quadrilatero da San Mauro a Moncalieri, a Chieri, a Baldissero fino a richiudersi a San Mauro. Nei secoli scorsi l’interesse destato dalla produzione di un’eccellente qualità di vino portò il proliferare di filari intorno alle proprietà borghesi che in quel periodo vennero denominate vigne. Non si trattava di vere e proprie aziende come le intendiamo oggi, ma piuttosto di cascine padronali con un appezzamento di terreno coltivato a vite e una cantina per la vinificazione. La storia di Villa Richelmy è intrinseca alle vicende della collina torinese; fu vigna in senso lato, quindi residenza privata per poi diventare sede distaccata del dipartimento universitario di agricoltura.

Già Vigna Richelmi, fu costruita nel 1774 su progetto dell’architetto Carlo Ignazio Galletti per conto del banchiere Pietro Rignon, una cui nipote la recò in dote a casa Richelmy. È un ottimo esempio di sobria ed elegante dimora signorile del XVIII secolo e disponeva di ampi salotti, oltre che di una cappella interna dedicata a San Pietro in Vincoli.

Sul finire del secolo scorso venne tradita e abbandonata. Nei primi anni 2000 ci fu un timido tentativo di rilancio come residenza privata del quale rimangono qualche opera muraria, i resti del cantiere e la spazzatura. Ad oggi è lasciata al suo destino nonostante una vista incredibile sulla collina torinese e una storia secolare di ricchezza e nobiltà.

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Il collegio Artigianelli

POSTED ON 12 Mar 2022 IN Reportage     TAGS: urbex

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Il Collegio Artigianelli fu fondato in Torino nel 1849 da don Giovanni Cocchi, un sacerdote dedito all’apostolato tra i giovani poveri, orfani e abbandonati. Per quasi 14 anni il collegio non ebbe una sede propria e stabile, finché nel marzo del 1863 ci fu il trasferimento nella nuova e definitiva sede di Corso Palestro, costruita per avere locali più ampi e soprattutto laboratori attrezzati per esercitare i ragazzi nel mestiere di artigiani.

Don Cocchi chiama Artigianelli i ragazzi del Collegio per sottolineare la formazione professionale che l’Istituto assicura loro. All’interno del Collegio vengono allestiti laboratori per tipografi, falegnami, ebanisti, calzolai, elettricisti, fabbri, legatori di libri. Particolarmente importanti sono la scuola Reffo di pittura e scultura e la tipografia dove a partire dal 1876 si stampa “La voce dell’operaio” a cui collabora anche Leonardo Murialdo (1828-1900), rettore del Collegio dal 1867 al 1900, anno della sua morte.

Durante la seconda guerra mondiale l’edificio fu bombardato in tre occasioni, il 20 novembre 1942, il 13 luglio 1943 e l’8 agosto 1943 da bombe incendiarie e dirompenti. Due piani furono parzialmente distrutti da bombe incendiarie (crollo parziale del tetto, crollo di soffitti, muricci e plafoni e lesioni ai muri perimetrali), mentre quattro piani risultarono devastati da bombe dirompenti. I danni più gravi si riscontrarono sui lati di via Juvarra e di corso Palestro, all’angolo con via Bertola. La copertura del tetto fu immediatamente ripristinata, mentre nel 1948 l’edificio risultava già perfettamente funzionante.

Nella colonia agricola nei pressi di Rivoli (acquistata a fine ‘800) lavoravano, invece, i più piccoli, bisognosi d’aria sana, e quanti desideravano specializzarsi nei lavori agricoli e nell’allevamento del bestiame, con campi e prati, orti, giardini, frutteti e reparti per gli animali: una vera scuola di agricoltura con corsi di botanica, fisica, orticoltura, viticoltura, frutticoltura, agronomia, floricoltura. Dopo la guerra il declino, la sede di Rivoli non era più competitiva, non era più interessante per i giovani che cercavano altri sbocchi lavorativi, e fu abbandonata, nonostante il bell’edificio con la torre chiamata a dominare la campagna. Nel 2006 ci fu un tentativo di acquisto da parte della setta Scientology, ma ancora oggi la sede degli Artigianelli di Rivoli giace abbandonata in cerca di rilancio.

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Un mestiere è come una cascina su cui non grandina mai
– Leonardo Murialdo

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Voglia di Cazzo

POSTED ON 9 Mar 2022 IN Street     TAGS: faceless

Voglia di Cazzo

Questa è una banale e ironica foto di street a Torino. Ma nasconde qualcosa di più, quella vetrina fa parte del più piccolo negozio di Torino, un bugigattolo chiuso fra due pilastri dei portici di via Palazzo di Città, dove in due metri quadri trova spazio solo il suo proprietario: Antonio Ferrara.

Il materiale esposto, ma non tutto, infatti mostra espliciti richiami sessuali, ma esposti in forma giocosa, divertente, riflettendo un lato della nostra quotidianità troppo spesso frustrato da una educazione volutamente repressiva nei confronti di parti anatomiche del nostro organismo, che qualcuno vuole sia peccaminoso mostrare.

Purtroppo pochi giorni fa, il 3 marzo scorso, Antonio è mancato e questo piccolo ma importante pezzo di storia torinese non esiste più. :-(

Discoteca Heaven

POSTED ON 24 Nov 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, disco

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La discoteca Heaven è stata una delle mete classiche della movida anni ’70 ’80 ’90 torinese. La struttura è di circa 1700 metri quadrati e si trova sul Colle della Maddalena (non è un segreto da salvaguardare) proprio vicino al Faro della Vittoria.

I locali sono ormai devastati, i muri pericolanti e la natura inizia a riprendersi i suoi spazi, l’esterno della discoteca è diventato una foresta di edera. Poche cose si sono salvate dall’incuria: la scritta Heaven è rimasta perfettamente intatta come volesse ricordare a tutti che questo una volta era il paradiso della vita notturna, nel bar fa bella mostra di sè una bottiglia di Disaronno che sembra pronto per essere servito ai clienti del locale.

Rispetto ad altre discoteche, che solitamente si trovano isolate lontano dalle città, qui la situazione è respirabile, tranquilla, quasi rilassante. Fuori dalle vetrate le persone incuranti salgono la scalinata che porta al Parco della Rimembranza e non si percepisce quella sensazione di pericolo tipica delle cattedrali della musica del secolo scorso. Quasi niente adrenalina, quasi un peccato.

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Lo Zoo che non c’è più

POSTED ON 5 Nov 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, graffiti

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Loo Zoo del Parco Michelotti a Torino fu inaugurato il 21 ottobre 1955, alla presenza del sindaco Amedeo Peyron, su progetto (allora avveniristico) dell’ingegnere Gabriele Manfredi. Venne definito città zoologica; altri tempi. Nel 1971 ospitava 117 mammiferi, 739 uccelli, 114 rettili e 1353 pesci su una superficie di 50.000 metri quadri; nel corso degli anni sono nati nello zoo numerosi animali tra i quali macachi, squali, un cervo porcino, un ammotrago, tre gerbilli, sei procioni, due taurachi, due gabbiani ibridi, quattro leoni ed un cammar.

Le storie che riguardano lo zoo sono tantissime e alcune davvero particolari: nel febbraio del 1962 un’evasione di 23 scimmie mandò letteralmente in tilt il quartiere di Borgo Po. Nell’estate del 1972 morì misteriosamente un ippopotamo proveniente dalla Somalia: l’autopsia rivelò la presenza di una testa di bambola (probabilmente lanciata da una bambina) che ne aveva bloccato lo stomaco.

A metà degli anni ’80 un movimento, presieduto da Allegra Agnelli, portò all’attenzione dell’opinione pubblica le sofferenze e le inutili crudeltà subite dagli animali; con un ordine del giorno del febbraio 1987, il consiglio comunale della città stabiliva la chiusura dello zoo e la restituzione del parco alla città. Il giardino zoologico è stato definitivamente chiuso al pubblico il 29 marzo 1987: in quel momento nel parco erano presenti oltre 1000 animali. Sono passati 34 anni e questa piccola città nella città sul lungo Po è diventata un luogo di culto per gli appassionati della street art.

Nell’ultimo periodo il comune ha riportato in vita alcune parti del parco e dovrebbero essere iniziati i lavori che permetteranno la messa in sicurezza e l’apertura anche della parte centrale di quello che una volta era lo Zoo di Torino. I lavori prevedono la rimozione dei ruderi, e l’installazione di alberi, panchine, tavoli e uno spazio per il parcheggio delle biciclette. Il progetto prevede l’apertura di un nuovo ingresso, a metà tra i due esistenti. Non ci resta che attendere.

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Villa Cartman

POSTED ON 4 Nov 2021 IN Reportage     TAGS: URBEX

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Villa Cartman si trova nella prima periferia di Torino, è abbandonata da tanto/troppo tempo. È stata chiamata anche Villa della Pattinatrice, per via di un paio di pattini da ghiaccio appoggiati, con scelta non casuale, su una mensola di quella che una volta probabilmente era la cucina, e anche Villa Silvia e sinceramente ignoro il motivo di questa denominazione.

Ci sono arrivato in una uggiosa mattina d’inverno, la nebbia nascondeva la visuale e regalava un’aurea misteriosa e affascinante: non è rimasto molto, ma non si fatica a comprendere la bellezza che una volta sprigionava Villa Cartman. Entrando si percorre il portico, ancora incredibilmente interessante, e non è difficile immaginare le serate d’estate passate all’aperto. All’interno è tutto un susseguirsi di stanze e tappezzeria, calcinacci e profumo di muffa.

I colori sono tenui, affaticati dal tempo e dall’umidità, ma lasciano un immaginario di tranquillità e pace, poesia che si palesa in alcuni strappi di tessuto al piano superiore con scene di vita dell’ottocento. E poi chiaramente i soliti simboli fallici e le scritte inneggianti una restaurazione francamente non auspicabile relativa al secolo scorso (beati i nostalgici). All’uscita mi sono fermato dal cancello spalancato e ormai arrugginito, ho dato ancora uno sguardo. Un’ultima foto. Ho ammirato, malinconica, ma sempre e ancora bellissima.

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Carta da parati

POSTED ON 31 Ott 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, graffiti

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Inseguendo una libellula in un prato, e dopo essermi perso, mi sono ritrovato in una selva oscura ché la diritta via era smarrita. E uscendo dal buio sono inciampato in un vecchio casolare abbandonato di due piani alla periferia di una grande città del Nord Italia (Torino). E qui era tutto devastato da tempo immemore, con la natura che ha deciso di riprendere il controllo della situazione. Immagino che in tempi recenti possa essere stato rifugio di qualche sbandato, adesso è interessante solo un paio di graffiti di livello e una tappezzeria vintage e colorata, a tratti anche ipnotica tipica dei mitici anni ’70, che l’umidità ha iniziato, da tempo, a scollare da muri e a rendere maggiormente affascinante.

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Come funziona la ricerca dei posti abbandonati? Tutto parte dalla curiosità, il desiderio di conoscenza e la passione verso l’ignoto e dopo vengono sere passate a leggere articoli di giornale, ricerche sulle mappe e sui social, passaparola… ma… non sempre le esplorazioni vanno come vorresti, le pianifichi cerchi il posto su google maps fa ricerche su cosa dovresti trovare e poi invece di un bel collegio ti ritrovi una vecchia cascina abbandonata. Per fortuna una bella stanza con della carta da parati anni 70 e alcuni graffiti hanno meritato comunque tanta strada. (Lorena Durante)

La maledizione di Villa Capriglio

POSTED ON 9 Giu 2021 IN Reportage     TAGS: urbex

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Villa Capriglio è una delle residenze storiche di Torino. E’ abbandonata da talmente tanto tempo che per i torinesi fa parte del paesaggio. Venne donata al Comune di Torino nel 1963, qualche anno dopo iniziarono dei lavori di ristrutturazione che molto presto vennero interrotti e mai più ripresi. La storia di questa fantastica magione inizia nel 1706 quando un certo Marchisio decise di costruire qui, circondata dalle vigne, la sua dimora. Vigna Marchisio fu il suo primo nome. La villa fu terminata nel 1761, ma nel frattempo era stata venduta per 14.500£ a Giampaolo Melina, conte di Capriglio, che le diede il nome che conosciamo ancora oggi. Durante questi anni la leggenda racconta di frequentazioni erotiche di Vittorio Amedeo II di Savoia che veniva qui segretamente per incontrarsi con la sua amante.

Nel 1773, quando l’ultimo figlio di Melina di Capriglio morì, la casa fu acquistata dal Regio Demanio, confermando così l’interesse dei Savoia per questa villa. Fu acquistata da privati solo sessant’anni dopo, nel 1838: l’acquirente era Antonio Callamaro, preside della facoltà di giurisprudenza, che in seguito la regalò alla figlia, moglie dell’avvocato Edoardo Cattaneo dal 1878. Per quasi cento anni la famiglia Cattaneo è stata proprietaria di questa residenza settecentesca, finché nel 1963 gli eredi la cedettero al Comune di Torino.

Da allora Villa Capriglio è purtroppo abbandonata, schiava delle leggende e delle storie: si racconta di spiriti, presenze oscure, riti satanici, addirittura secondo alcuni nelle notti invernali di plenilunio, quando cala la nebbia, la casa scompare nel nulla, per ricomparire solo al mattino. Sono chiaramente tutte invenzioni, Villa Capriglio ormai è irrecuperabile e ogni giorno che passa la situazione peggiora.

La costruzione della Strada al Traforo di Pino ha segnato la rovina del Capriglio, snaturandolo: ha eliminato buona parte del parco antistante, dei terreni agricoli e l’antico accesso dalla Strada Mongreno, immergendo la casa nel frastuono delle macchine che sfrecciano a tutta velocità verso Chieri. I lavori hanno rovinato la statua di Ercole di Bernardo Falconi, che rimase per molto tempo spezzata nel giardino e un bel dì sparì. Nel 1971 il Comune iniziò il restauro, presto interrotto. Il palazzo rimase in balia dell’incuria, di ladri e vandali. Una parentesi di luce si è avuta tra il 1999 e il 2009, quando la villa fu affidata all’Associazione Culturale “I Leonardi”. Nel 2009 il Comune l’ha messa in vendita, ma nessuno la vuole e ormai cade a pezzi e presto di lei non ci sarà più traccia.

Nel 1983 Elisa Gribaudi Rossi scriveva: “Il Capriglio è uno dei più vistosi esempi di distruzione e dispersione di un prezioso patrimonio storico-artistico”. Sono passati 38 anni e la situazione non è cambiata.

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The snow on the terrace

POSTED ON 20 Apr 2021 IN Landscape     TAGS: snow, winter, mountains

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Ha nevicato. Il terrazzo è bellissimo, vedo la neve intonsa e le montagne che vigilano. Dopo i fiocchi di neve di questa notte il cielo si è pulito, un timido sole riscalda il freddo della mattina, l’aria è frizzante, ma positiva. Non voglio camminare perché ho paura di rovinare la poesia, la perfezione: non c’è una regola, non è matematica eppure è tutto così preciso che sembra ragionato a tavolino. Rimango in silenzio sulla porta ad osservare la magia e non trovo parole, non ho il coraggio di avventurarmi all’esterno, non voglio provare imbarazzo per le mie impronte. Forse è una scusa, perché il freddo arriva anche qui e punge la pelle del viso in modo quasi doloroso. E’ inverno e la neve è un simbolo, una geometria quasi perfetta che mi racconta il senso della natura.

A Silvia

POSTED ON 18 Apr 2021 IN Landscape     TAGS: snow, trekking, winter, tree

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
– Giacomo Leopardi

La clausura violata

POSTED ON 13 Apr 2021 IN Reportage     TAGS: URBEX, religion

La clausura violata /02

Sono solo e mi avvicino, in religioso silenzio, a quella che nel secolo scorso era la Certosa della Motta Grossa. Qui una volta c’era un importante convento di clausura. Nel 1903 a seguito di leggi che soppressero le case monastiche, la comunità certosina femminile di Bastide Sainte Pierre a Montauban nella Garonna in Francia, dovette abbandonare il proprio convento trovando rifugio in Italia, presso un antico castello di Riva di Pinerolo chiamato Motta Trucchetti.

Furono realizzati grandi lavori di ristrutturazione, iniziati nell’ottobre 1903, eseguiti sotto la direzione di Dom Roch Mallet, procuratore della Grande Chartreuse, il quale rese gli edifici idonei alla regola monastica certosina. Fu installato un bellissimo orologio, proveniente dalla certosa di Le Reposoir, che fu posto in una torre quadrata, a una cinquantina di metri dal convento. Poiché l’antica cappella di San Giovanni Battista, situata nel giardino, era troppo piccola, ne fu costruita un’altra più spaziosa, e Don Michel Baglin andò a benedirla il 12 maggio del 1904 titolandola a Santa Rosellina. In questo luogo la comunità religiosa rispettò la regola certosina come casa rifugio, e soltanto in seguito, nel 1936, visto la notevole crescita del numero di monache, si decise di erigere una certosa autonoma conosciuta con il nome di Motta Grossa.

La struttura monastica è composta da un enorme edificio eretto su due livelli, al centro si trova la Chiesa del quale ormai non rimane più nulla: anche il bellissimo crocifisso ligneo è sparito. Al piano superiore un lunghissimo corridoio porta alle celle dove vivevano le sorelle. Le monache rimasero nel convento sino al 1998 anno in cui si trasferirono alla certosa di Vedana lasciando il complesso monastico all’Istituto diocesano per il sostentamento clero di Torino. Da quel giorno la Motta Grossa è in stato di completo abbandono, preda dei vandali che hanno distrutto tutto il possibile. Oggi è un luogo vuoto e spettrale, svetta tra la fitta vegetazione che quasi ne impedisce l’accesso; il cancello arrugginito è rimasto come ultima, ma inutile protezione.

Tutto ora è abbandonato: finestre spalancate, persiane penzolanti, porte sfondate, muri fessurati dall’umidità e rampicanti che s’infilano in ogni dove quasi per inglobare di nuovo nella natura quel pezzo di mondo.

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La Villa del Maggiordomo

POSTED ON 31 Mar 2021 IN Reportage     TAGS: URBEX

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Alcune settimane fa, grazie al permesso della proprietà che l’ha acquistata alla fine del secolo scorso, abbiamo avuto la possibilità di visitare una bellissima villa storica dimenticata nella periferia di Torino: la Villa del Maggiordomo.

Alla parola “maggiordomo” il pensiero ci porta sempre a immaginare un signore distinto e impettito in livrea nera che si occupa della gestione della villa del suo padrone. In realtà all’epoca dei Savoia, nel XVII e XVIII secolo, la figura del maggiordomo era molto diversa e ricopriva un ruolo importantissimo nella corte. Era scelto tra le famiglie nobili ma, soprattutto, doveva essere uomo di prime nobilitatis et rare virtutis, perché le qualità personali e i servigi prestati contassero nella scelta più del sangue. Non mancano infatti casi di maggiordomi di origine borghese, giunti a tale dignità attraverso una carriera negli uffici giudiziari o finanziari. Il re nominava diversi maggiordomi, alcuni solo come carica onorifica, altri invece che accompagnavano la corte e avevano il compito di dirigerne la vita quotidiana; erano soprattutto quelli che venivano nominati, con significativa precisazione, all’ufficio di continuum et residentem magistrum hospitii nostri, perché fosse ben chiaro che non si trattava di una nomina meramente onorifica. A loro spettava, tra le altre cose, verificare e controfirmare le note spese di tutti i fornitori della casa ducale e le richieste di rimborso dei servitori, nonché controllare e vidimare, ogni mese, il registro delle spese quotidiane della casa, presentato dall’impiegato a ciò addetto. Spettava a loro, altresì, la responsabilità del guardaroba ducale, e con esso delle tappezzerie, masserizie, abiti e gioielli. Veniva poi scelto, tra tutti, un gran maggiordomo, la cui responsabilità politica si aggiungeva a quella più propriamente amministrativa: infatti egli partecipava alle riunioni del consiglio ducale, lasciando la gestione quotidiana agli altri maggiordomi. Era a tutti gli effetti il Primo Ministro dell’epoca per la sua importanza.

La villa fu costruita su un terreno rurale, dove esisteva già una cascina, tra il 1675 e il 1683 dal gentiluomo Valeriano Napione. Inizialmente fu soprannominata la Napiona proprio per il nome del suo primo proprietario, in seguito prese il nome dalla carica di maggiordomo ricoperta intorno alla metà del Seicento da Valeriano presso la corte del principe Emanuele Filiberto di Savoia Carignano. Napione affidò la costruzione al famoso architetto torinese Guarini o forse, più presumibilmente, ad un suo allievo: Giovanni Francesco Baroncelli, perché avrebbe voluto avere una struttura il più simile possibile a Palazzo Carignano che i Savoia stavano costruendo nello stesso periodo.

Inizialmente la villa era concepita per essere un luogo di svago con saloni e stanze per i ricevimenti. L’importante salone centrale di forma ellittica si ergeva fino al secondo piano: in fase di restauro sono stati scoperti gli attacchi dei balconcini tra primo e secondo piano pensati per la permanenza dei musici e dei cantanti che allietavano le serate degli ospiti.

Solo in un secondo tempo, probabilmente nel ‘700, vennero aggiunte le ali laterali contenenti le cucine, la cappella e le stanze al piano superiore. Altre migliorie tra cui la limonaia, o giardino d’inverno, creato con enormi vetrate nel rifacimento della parte ovest e la meravigliosa scala elicoidale in legno, abbastanza preservata, furono create da un altro proprietario, Amedeo Peyron, tra fine ‘800 e i primi del ‘900, su progetto dell’architetto Carlo Ceppi, famoso a Torino per l’opera della Stazione Porta Nuova. La cappella invece venne completamente rifatta nel 1833 da Andrea Gonella, banchiere di Carrù, la cui famiglia fu proprietaria della palazzina fino al 1868.

Confrontandola con il famoso palazzo Carignano di Torino, di cui forse voleva essere una riproduzione in piccolo, la villa “Il Maggiordomo” acquista sicuramente un valore aggiunto in quanto il mantenimento delle finiture originali potrebbe suggerire (naturalmente in modo semplificato e in scala inferiore) l’aspetto che avrebbe potuto assumere Palazzo Carignano se fosse stato completato con l’applicazione dell’intonaco e dello stucco decorativo. Il Carignano infatti, a causa di una successione di eventi tra cui la morte del Guarini, l’esilio del committente e la già citata mancanza di calce, è rimasto diciamo incompiuto nella facciata con il paramento in mattoni a vista.

La villa negli anni passò di mano in mano a personaggi più o meno illustri fino al declino iniziato con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando venne danneggiata dalle truppe tedesche e poi ospitò alcune famiglie sfollate, che abitarono nel complesso anche nei decenni successivi, quando il Maggiordomo era già in gran parte abbandonato.
Nel 1952 morí Luigi Corrado Della Chà (o Della Cà), l’ultimo proprietario ad aver abitato nella villa e la proprietà andò alla figlia Marizzina che, nel 1955, sposò il principe romano Ladislao Odescalchi lasciando la nobile dimora abbandonata a se stessa. Da qui iniziò velocemente il declino, arrivarono i ladri che depredarono parte dei pavimenti e i camini, il tetto crollò lasciando i danni delle infiltrazioni d’acqua e tutto sembrava perso.

L’attuale proprietà, che ha acquistato l’immobile in stato di avanzato degrado, negli ultimi anni ha ricoperto il tetto con lastre di metallo e iniziato un primo intervento conservativo di restauro sugli stucchi. Intanto, mentre il maggiordomo cerca di sopravvivere al tempo inesorabile, si sta cercando una nuova destinazione d’uso sostenibile negli anni e un partner per la ricostruzione. La speranza è che riescano presto in questa impresa, perché la triste sorte di questo edificio non rende giustizia alla sua valenza architettonica e storica: un vero e proprio gioiello dimenticato del barocco torinese.

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Brooklyn Babe

POSTED ON 27 Feb 2021 IN Portrait     TAGS: model, studio, beauty, kingoftherings

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Faro della Vittoria

POSTED ON 18 Feb 2021 IN Landmark     TAGS: monument, art

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Il Faro della Vittoria è uno dei monumenti più dimenticati di Torino. Forse per la posizione decisamente scomoda, forse per il periodo storico di nascita (il fascismo, che in parte rappresenta) non viene quasi mai citato nelle guide della città. Eppure è di notevole bellezza e importanza. Il faro è opera dello scultore Torinese Edoardo Rubino, è colossale: la statua pesa 25 tonnellate, è alta 18,50 metri ed è poggiante su un basamento in pietra di altri 8 metri di altezza. Fu donato alla città dal senatore Giovanni Agnelli nel 1928 per commemorare il decimo anniversario della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale sull’Austria e Germania. Si trova sulla sommità del parco della Rimembranza presso il Colle della Maddalena, il faro è sistemato nella fiaccola sorretta tra le mani della statua in bronzo che rappresenta la Vittoria Alata. Dal parco si gode di una meravigliosa vista di Torino e dell’arco alpino e di notte la luce del faro può essere notata da qualsiasi angolo della città. Per fotografare avevo davvero poco tempo e quindi sarei potuto andare di cronosfida. Purtroppo non avevo con me una lente normale e ho dovuto scegliere due ottiche (tele e grandangolo) per realizzare qualcosa di interessante: e questo è contrario alle regole. Sarà per un’altra volta.

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Il tempo delle bolle

POSTED ON 5 Feb 2021 IN Street     TAGS: children, wideaperture, 50ne

Il tempo delle bolle

Alessia -Black-

POSTED ON 27 Gen 2021 IN Portrait     TAGS: model, beauty

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