L’ex Base Nato di Calice Ligure fu costruita nel 1961, faceva parte di una rete di circa 40 stazioni militari in Europa e, grazie alla sua posizione strategica, contribuiva a monitorare gli spazi aerei nel territorio del savonese. La struttura era presidiata dalla 59th Compagnia U.S. Army Signal, appartenente al Battaglione 509th: siamo negli anni della Guerra Fredda, quando le potenze militari si sfidavano anche utilizzando strategie intimidatorie, vantando i migliori armamenti e le tecnologie più avanzate, il tutto sotto la minaccia di una guerra nucleare. Con il crollo del muro di Berlino e l’arrivo delle comunicazioni satellitari l’utilità della base calò drasticamente sino alla totale dismissione nel 1992.
Della vecchia base non è rimasto quasi nulla, all’ingresso si intravede il posto di guardia, la torre di controllo e tre edifici più imponenti: probabilmente la camerate, la sala radio e l’officina. Ma sono due le peculiarità che mi sono saltate subito all’occhio: la presenza di turismo sportivo, con tantissimi appassionati di ciclismo che si fermano qui per una pausa ristoratrice, e l’enorme quantità di meravigliosi graffiti che hanno trasformato la sede italiana della 046 US Army in un museo a cielo aperto. Negli anni si è parlato di recuperare questo spazio con tanti progetti, manco a dirlo, subito naufragati, ma forse meglio così: qui è conservato un pezzo di storia importante del secolo scorso e la possibilità di una visita libera è interessante per chiunque voglia spingersi fin quassù.
L’Ossario di Custoza è segnato in rosso nella mia personalissima mappa dei luoghi da visitare (in Italia). Perché è un simbolo, uno dei pochi, legato alle guerre d’indipendenza combattute nel 1848 e nel 1866, prima dall’esercito sabaudo e poi dall’esercito italiano; e il Risorgimento Italiano è da sempre un periodo storico che mi affascina. Sono arrivato alla biglietteria poco prima della chiusura (il biglietto costa pochissimo) e quindi mi sono visto costretto a fare un giro decisamente veloce: nonostante le dimensioni ridotte dell’Ossario (definire angusta la scala è riduttivo) sono riuscito a fotografare con il treppiede (senza pensare troppo) e mi sono anche permesso il lusso di cambiare obbiettivo. È un luogo che per certi versi può apparire macabro, ma è anche un monumento che permette di riflettere e, con un minimo di lucidità, comprendere cos’eravamo.
Ho giù pubblicato una foto zenitale di Palazzo Doria-Tursi, sede del Comune di Genova (si tratta anche di uno dei 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova diventati il 13 luglio 2006 Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO). In quel caso avevo scattato con il fish-eye, ma di ritorno a Genova mi sono visto costretto a cedere alla voglia di un nuovo tentativo con il 15mm ed il treppiede. Questa è sicuramente più pulita, più lineare, ma se devo essere sincero preferisco quella che scattai nel lontano 2017: ha un fascino superiore. Segnalo che per eliminare un paio di difetti ho fatto ricorso all’Intelligenza Artificiale di Photoshop, che sostanzialmente ha fatto un bel lavoro. :)
Domenica scorsa (21 Aprile) sono andato con il gruppo escursioni MondovìPhoto in quel di Genova per visitare la mostra Aqua Mater di Sebastião Salgado a Palazzo Ducale. La mostra, nonostante un allestimento davvero prestigioso, non mi ha impressionato dal punto di vista fotografico, ma offre spunti di riflessione politici e sociali molto interessanti. Ci sarebbe da discutere anche sulla qualità di alcune stampe e sulla scelta delle dimensioni, forse troppe generose, ma non è questo il posto adatto.
Quel che passa il convento è un’espressione idiomatica tipica della nostra lingua; viene utilizzata quando ci si deve accontentare di qualcosa e quel qualcosa è solitamente limitato oppure economico.
E nel caso di questa esplorazione l’espressione si adatta perfettamente alla situazione perché in effetti si tratta di un convento in stato di abbandono e, se lo osserviamo dal punto di vista dell’esplorazione urbana, ha davvero poco da offrire, quasi niente: un soffitto particolare, un murale, diversi bagni di rara bruttezza, un tappeto, uno strano divano quasi nuovo, qualche bottiglia (di notevole pregio il Punt e Mes in soffitta), un cancello arrugginito, un interessante chiostro. In questo caso, data la povertà degli arredi, si può anche raccontare qualcosa: il convento è opera del padre Servita Filippo Ferrari (1551-1626), figura di spicco in campo religioso e scientifico del suo tempo, che divenuto priore del suo ordine, nel 1606 ottenne di potersi dedicare alla riedificazione dell’antica chiesa dedicata a Sant’Agata e alla costruzione di un convento per ospitare i Frati servi di Maria. Dopo quasi 200 anni di attività il convento venne soppresso (insieme a molti altri) nekl 1802 da Napoleone Bonaparte: da quel giorno la chiesa di Sant’Agata andò velocemente in rovina mentre l’abitazione dei frati, trasformata in dimora privata e adeguatamente restaurata, conserva ancora oggi, pur essendo in stato di abbandono da tanto tempo, la sua maestosità e la sua bellezza architettonica.
Ai piedi della Bisalta, nelle campagne di Peveragno, potete incontrare un esempio straordinario di amore. Il castagno secolare e il glicine anche quest’anno, teneramente abbracciati, vivono e manifestano la loro passione. La natura non smette mai di sorprendere: è un abbraccio meraviglioso che forma un cuore e che ogni giorno attira curiosi, innamorati e fotografi. Avevo già tentato lo scorso anno, ma come sempre in ritardo mi ero perso il periodo propizio (e poi le piogge torrenziali di maggio avevano fatto il resto). Quest’anno no, quest’anno sono andato in avanscoperta domenica scorsa, ho scelto l’ora migliore e sono tornato armato di treppiede (e ho scelto una foto a mano libera). Il Glicine è ormai una star, su Instagram è diventato uno degli spot più conosciuti del cuneese, e chi sono io per non fotografare quello che ormai è definito da tutto il Cuore di Peveragno?
«Sono stanco, sono vecchio, sono brutto, voglio morire», dice il castagno. «Le tue radici sono piene di vita, il tuo tronco è robusto, io lo abbraccio e farò una corona di fiori sulla tua chioma. Sarà il più bell’albero che ci sia: l’albero del cuore» gli risponde il compagno.
Ci sono esplorazioni brutte, che non lasciano emozioni e solo poche fotografie. A me questa sensazione capita sempre nel disordine, perché al caos preferisco il razionale e l’ordine. E nella Casa di Paperino, il significato del nome lo svelo dopo, ho trovato proprio la mia nemesi e non sono riuscito a tirarmi fuori dall’angolo. È stato brutto, le foto rispecchiano perfettamente il mio stato d’animo: pochi scatti, di pessima qualità, un fastidio composto, ma insopportabile e la fuga per la sconfitta (passando da una finestra sporca, pericolosa e scomoda).