
La villa del medico condotto è una delle esplorazioni urbex che mi ricorderò con più chiarezza, non tanto per l’edificio in sé, quanto per un episodio particolare che è accaduto durante la visita. Era molto presto, intorno alle 5:30 del mattino, primavera inoltrata, e il sole si affacciava appena oltre le colline. Avevo deciso di arrivare sul posto alle prime luci dell’alba, per sfruttare la tranquillità e la luce favorevole. L’accesso alla villa, infatti, si trova in pieno centro abitato e non è particolarmente discreto, quindi era importante evitare orari troppo frequentati.
A pochi chilometri dal mio pin, mentre percorrevo una strada di campagna, ho notato davanti a me un’auto che procedeva molto lentamente.
Pensavo al solito vecchietto lento, poi mi sono avvicinato per superare e ho visto che davanti alla macchina c’era un gruppo numeroso di persone che camminavano. Alcune avevano in mano delle torce e l’uomo al volante mi ha fatto segno di rallentare, dicendo semplicemente: “È una processione, vada piano”. Ho proseguito lentamente, ho superato il gruppo (capeggiato da un enorme croce) con cautela e sono arrivato alla villa. Ho parcheggiato, sono entrato e ho iniziato la mia esplorazione. Mentre ero al secondo piano, ho sentito un fortissimo brusio, delle voci provenire dall’esterno. Mi sono affacciato a una finestra e ho visto che la processione stava passando proprio sotto la villa. Era un gruppo molto numeroso – direi alcune centinaia di persone – che camminavano per le vie del paese recitando preghiere. È stato un momento piuttosto insolito: mentre scattavo le foto all’interno di una casa abbandonata, in evidente stato di degrado, fuori si svolgeva una cerimonia religiosa di grandissima partecipazione; erano da poco passate le 6 del mattino. Ho scattato due foto di nascosto per congelare il momento e sono tornato in veranda.
La villa del
medico condotto è un luogo affascinante, intriso di storia e di memorie. Ovunque si posi lo sguardo, ci sono
oggetti che raccontano una vita intera, dettagli che restituiscono un mondo ormai scomparso. Sapevo della presenza di una veranda splendida, e così, appena entrato sono salito al secondo piano, l’ho cercata subito. Era presto, la luce del mattino iniziava appena a filtrare: quando entro in un luogo all’alba, cerco sempre di cominciare dagli spazi più luminosi. E anche stavolta non sono rimasto deluso.
La veranda era avvolta in un’atmosfera poetica, attraversata da una luce delicata e dorata. Mi sono concentrato per non sbagliare quella che sapevo sarebbe stata la foto più importante.
Poi ho continuato l’esplorazione, stanza dopo stanza. Un bagno incredibilmente stretto, quasi verticale, incassato nella scala. Una vecchia carrozzina in soffitta, che sembrava arrivare da un altro secolo. Il fasciatoio di marmo, le saponette dell’Olio Carli, da Imperia, conservate con cura e ancora nella scatola originale. Un vaso da notte a forma di papera, buffo e surreale. Occhiali, una dentiera, piccoli oggetti quotidiani. Le ciliegie al liquore Fabbri, sempre presenti anche in casa mia, del quale ricordo perfettamente il sapore forte e dolciastro. E, immancabile, quasi attesa: la statuetta dell’Acqua di Lourdes, con la classica forma della Madonna.
Le due stanze più significative erano sullo stesso piano. La sala da pranzo, bellissima, illuminata da una terrazza che lasciava entrare una luce calda e radente. La tavola ancora apparecchiata, un divanetto giallo, un sofà in stile inglese, il caminetto maestoso: tutto fermo, immobile, cristallizzato in un tempo che non scorre più. Accanto, quello che doveva essere l’ambulatorio del medico: un lavabo per lavarsi le mani, volumi di medicina in libreria, e sul banco, ancora lì, gli strumenti del mestiere. Nessun segno di vita recente, solo silenzio, confusione e polvere.
E poi c’è una foto che ho voluto e che mi piace particolarmente. In quello che ho immaginato fosse un piccolo tinello, o forse un’antisala, la luce colpiva direttamente l’obiettivo da una finestra proprio di fronte. Non riuscivo a domarla: era troppo forte, troppo netta. Allora ho deciso di farmela amica. Ho tolto il paraluce e ho sfruttato una delle piccole debolezze della mia lente: la sua fragilità in forte controluce. Quello che era un limite è diventato parte dell’immagine. Alla fine, anche le imperfezioni raccontano qualcosa. Forse proprio quelle rendono certi luoghi ancora più veri.










