POSTED ON 13 Dic 2024 IN
Reportage
TAGS:
URBEX
Oggi racconto la storia di una stanza, una singola stanza. Perché il resto della casa è normale, tradizionale, nulla da segnalare: una moderna abitazione del nostro paese; e per una volta preferisco limitare il reportage al singolo ambiente. Ho fotografato tutto, ma non avrebbe nessun senso aggiungerlo proprio per un discorso di attinenza.
Quando si entra
nella memoria del Dragone Rosso si scoprono
i ricordi di un tempo meraviglioso. Qui il treno conclude il suo percorso e sembra che la fermata sia sul fiume azzurro, ai tempi della
Dinastia Ming. Non è facile comprendere il motivo di
questo spazio meraviglioso, proprio di fronte alla porta di ingresso: ma sicuramente si viene presi dalla voglia di sedersi sul divano e godersi un tè verde con il sottofondo musicale di un guqin.
Tutto è perfetto e l’insieme fa pensare davvero di essere in Cina. I colori, i dettagli, i vasi, il lampadario, il divano, la finestra, i quadri dipinti sulle pareti: tutto è ricostruito perfettamente, come un mondo parallelo, come un viaggio nello spazio/tempo attraverso una porta di ingresso: sembra di vagare nel nulla più disperato e, pochi istanti dopo, si varca un portone e ci si ritrova nella Repubblica Popolare Cinese. E poi quando si esce e l’idea è ancora quella di vivere un sogno, si guarda per terra, si vedono due pietre che sorreggono un cartello e si legge una scritta che riporta immediatamente alla realtà: Casa disabitata non c’è nulla da portare via.
POSTED ON 23 Set 2024 IN
Landmark
TAGS:
cimitery,
monument,
fish-eye
Aldo Rossi è stato un architetto e teorico dell’architettura italiano. È stato il primo italiano a vincere, nel 1990, il Premio Pritzker (praticamente il nobel dell’architettura), seguito otto anni dopo da Renzo Piano. Nel 1971 vince il concorso di progettazione per l’ampliamento del cimitero San Cataldo a Modena, è la sua prima creazione importante che gli donerà fama internazionale. Lo studio, realizzato in collaborazione con Gianni Braghieri e denominato L’azzurro del cielo, prevedeva uno stile razionalista-metafisico con linee essenziali e pulite. Il progetto venne modificato nel 1976 e inaugurato nel 1987, ma a distanza di 53 anni non è ancora terminato (e credo non lo sarà mai).
Il progetto originale prevedeva anche la realizzazione di un cono tronco in cemento alto 25 metri, diametro compreso tra i 16 metri della base e i 5,5 metri del culmine. Tale struttura, ispirata al pantheon e dedicata alla celebrazione delle cerimonie funebri (sia religiose sia laiche), non è però ancora stata realizzata. Tra il cubo e il cono era altresì prevista la realizzazione di una spina centrale di congiunzione tra i due elementi geometrici. Tale elemento avrebbe dovuto essere composto da una serie di 14 parallelepipedi larghi due metri, ma con lunghezza ed altezza inversamente proporzionale compresa tra 4,5 e 11,5 metri.
Il cimitero nuovo è dominato, al centro del cortile, da un alto edificio di forma cubica (molto simile al Palazzo della Civiltà Italiana del quartiere EUR di Roma) in calcestruzzo colorato in rosso, che rappresenta la casa dei morti in contrapposizione alla casa dei vivi. E’ completamente cavo all’interno ed è contraddistinto da sette linee orizzontali di finestre quadrate di due metri per lato disposte in nove colonne verticali (totale 63 finestre per ogni facciata). Quando sono arrivato nei pressi del cubo di Aldo Rossi (passando dalla strada sbagliata) sono rimasto impietrito. È una costruzione moderna, essenziale, che non ha un’estetica apprezzabile: ma lascia comunque senza fiato. Perché esce dagli schemi e ha un impatto devastante: per la posizione, per il colore, per la forma e per quello che lo circonda; è inaspettato, insolito, fragoroso. Sono rimasto quasi un’ora a fotografare: il silenzio della mattina e l’assenza quasi totale di essere umani hanno aggiunto un’aura importante al momento. Per chi, come me, ama le geometrie, la pulizia, le linee essenziali e moderne, il cimitero nuovo di Modena è uno spettacolo imperdibile.
» CONTINUA A LEGGERE «
POSTED ON 2 Set 2024 IN
Landmark
TAGS:
monument,
zenit,
fish-eye
Se passi da Ferrara ti suggerisco di andare a fotografare la Rotonda. E questo forse è il consiglio fotografico migliore che abbia ricevuto a memoria d’uomo, e contrariamente a quanto molti pensano mi piace ascoltare: soprattutto se il consiglio arriva da una persona che ha la mia stessa passione. E quando ho varcato l’arco che da corso della Giovecca permette di entrare all’interno della Rotonda Foschini sono rimasto senza parole: l’esperienza perfetta per chi apprezza le foto zenitali, un concentrato di arte e precisione, di curve perfette e di geometrie meravigliose.
È un luogo magico, carico di fascino, quasi nascosto alla vista del visitatore. Rappresentata da un piccolo cortile di forma ovale è parte integrante dell’architettura del Teatro Comunale di Ferrara, che, essendo situato ad angolo fra due strade di pari importanza, necessitava di un efficace espediente di ambientamento urbanistico, ed è dedicato, come suggerisce il nome, ad Antonio Foschini, uno dei due progettisti del teatro. L’aspetto curioso è che questo cortile ovale venne realizzato su disegno dell’altro ingegnere del teatro, Cosimo Morelli mentre Antonio Foschini seguì la costruzione del vestibolo anteriore con le botteghe, lo scalone d’onore e le stanze del piano nobile. Oggi la Rotonda è stata riqualificata con il rifacimento delle pareti ovali e con l’aggiunta di un’adeguata illuminazione. Non è più aperta al traffico ed è adibita a zona pedonale nella quale vengono svolte anche manifestazioni o convegni di ogni tipo. Vi si può accedere attraverso due sottopassaggi aperti sulle due strade sulle quali si ergono le pareti del teatro.
Sono arrivato alla rotonda poco dopo le 9 del mattino con il sole non ancora perpendicolare. Era un giorno quasi festivo (16 agosto) e la presenza di essere umani molto limitata. Ho scattato con il treppiede per riuscire ad essere perfettamente (o quasi) in bolla utilizzando 3 obbiettivi diversi: il Sigma 14mm, il Sigma 15mm Fish-Eye e il Canon 15-35 alla focale minima. Ho sempre con me l’occhio di pesce e in queste situazioni è un obbiettivo che si presta perfettamente, perché ha un angolo di campo molto ampio e riesce a entrare in simbiosi con le linee curve in modo perfetto. Quando è stato il momento di andare via mi sono concesso un ultimo scatto e con un velo di malinconia sono uscito attraverso l’arco di corso Martini della Libertà camminando all’indietro.
POSTED ON 21 Nov 2023 IN
Reportage
TAGS:
URBEX,
liberty,
fish-eye
I miei contatti/amici conoscono perfettamente la passione del sottoscritto per il fish-eye. L’occhio di pesce è un obbiettivo particolare, che si può utilizzare raramente, per pochi scatti e quindi generalmente è poco utilizzato. Per me rappresenta lo scatto diverso dal solito, lo scatto che può uscire dagli schemi e donare al reportage una prospettiva più intrigante: se il soggetto ha delle forme rotondeggianti diventa difficile, quasi impossibile, resistere. E quando mi sono imbattuto in questa splendida, ma piccola voliera liberty non ho esitato un secondo a sfoderare il mio Sigma 15mm f/2.8 EX DG Diagonal Fish-eye. Per queste foto ho utilizzato due obbiettivi particolari, ma la voliera richiedeva il grandangolo: il Laowa 11mm f/4.5 FF RL e ovviamente il fish-eye. Sono due lenti che mi piace definire bizzarre, piccole e che utilizzo poco, ma che comunque voglio avere sempre con me in urbex. Perché quando meno te lo aspetti arriva il loro momento. E non tradiscono mai.
La storia di questa foto alla cascata di Gljúfrafoss è un po’ bizzarra. E complicata, come complicato è riuscire a fotografare questa piccola perla nascosta. Gljúfrafoss si trova a poca distanza da Seljalandfoss, ci si arriva a piedi percorrendo un piccolo tratto di strada. Purtroppo al primo passaggio non sono riuscito a vederla, anche perché ho ricevuto indicazioni sbagliate. All’ultimo giorno, durante il rientro, siamo tornati sulle nostre tracce e non ho esitato un secondo quando mi si è presentata la possibilità di fermarmi nuovamente in questa zona.
Purtroppo fotografare la cascata di Gljúfrafoss è un’impresa che potrei definire avventurosa: per arrivarci è necessario guadare un piccolo fiume ed entrare in una gola decisamente stretta. Non esiste una vera e propria strada, si salta di pietra in pietra per evitare di bagnarsi. Si forma una piccola coda in un solo senso di marcia, quindi si deve aspettare che si esaurisca il flusso di persone per riuscire ad entrare. Una volta arrivati sotto la cascata ci si trova in un piccolo antro di qualche metro con l’acqua che arriva da tutte le parti e con una luminosità ai minimi termini. Usare il treppiede è impossibile (non ci sono punti facili di appoggio), si è circondati da altre persone e il contrasto tra il cielo e l’interno della cascata è fortissimo.
Ho scattato con il fish-eye, esponendo sul cielo al centro del fotogramma a 400 ISO, 1/125, f/5.6. Giocoforza ho dovuto alzare le ombre e la luminosità in modo importante (e si nota) per ottenere una foto almeno comprensibile. Ho anche dovuto cambiare obbiettivo e siccome dentro la cascata è impossibile sono dovuto uscire e rientrare fra gli insulti di chi aspettava in coda (maledetti italiani). Gljúfrafoss è forse la cascata più complicata e particolare di tutta l’Islanda, ma merita davvero la doccia. :-)
Il ghiacciaio assomiglia a una gigantesca onda bianca gelata all’improvviso.
– Stephen O’ Shea