
La via della seta, è già poesia così. E’ una definizione semplice, quasi naturale all’epoca, eppure importante: da queste parti la seta era un elemento fondamentale, perché nei secoli scorsi la coltivazione del baco e dei gelsi era vita e la seta Piemontese, si perché siamo a Racconigi, era considerata la migliore e la più pregiata del mondo. Questa tenuta agricola, costruita nella seconda metà del ‘700, composta da villa padronale, chiesetta privata (del quale non rimane nulla) stalle e cascine era molto conosciuta come una delle dimore della seta. Poi all’inizio del secolo scorso arrivarono le malattie e la concorrenza della seta asiatica: ci fu una tremenda crisi del settore e tenuta Cajre (questo il suo vero nome) fu acquistata da Giuseppe Augusto Levis, esponente della pittura romantica e paesaggistica piemontese a cavallo tra l’800 e il ‘900.
Nel 1901 il pittore fissò qui sua dimora, e la seppe trasformare in elegante e fantastico cenacolo d’arte e di bellezza, dove esplicò la sua molteplice e meravigliosa attività artistica.
Della meraviglia non rimane quasi più nulla: la villa fu abbandonata al suo destino nella seconda metà del secolo scorso e oggi cade a pezzi, i calcinacci e le pareti color porpora, che dominano la sala principale, sono gli ultimi guardiani delle vestigia e del ricordo del tempo che fu.













La tenuta agricola aveva anche una chiesetta privata nel parco che però è ormai inaccessibile a causa della fitta vegetazione cha la ricopre. Questa meraviglia purtroppo ora versa in un completo stato di abbandono come purtroppo tanti pezzi della nostra storia














Qualche giorno fa leggevo una bellissima intervista a Giacomo Doni, uno dei precursori italiani dell’urbex, ma soprattutto colui che ha contribuito, fotograficamente e non solo, alla riscoperta dei manicomi abbandonati. E sono tornato ad osservare le mie foto al manicomio di Racconigi e, se proprio devo fare una classifica del reportage urbex (anche se nessuno me lo chiede), quello negli ospedali psichiatrici è forse il più vero e importante. Sono stato diverse volte dentro il manicomio di Racconigi, ma poi in realtà ho pubblicato solo le foto della prima incursione. Queste risalgono all’anno scorso, la mia prima esperienza con la EOS R, e devo ammettere che le trovo per certi versi molto reali, molto improntate alla ricerca dell’atmosfera e un po’ meno alla spettacolarizzazione del luogo. Forse non tutte se devo essere sincero, ma in molti casi trovo che in queste immagini diano davvero l’idea del tempo passato e dell’ambiente decisamente triste e ostile. Per questa volta, in esclusiva per i miei affezionati lettori, eviterò la famigerata citazione di Alda Merini. Contenti?












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Queste foto sono un po’ strane, sono una specie di anticipazione bizzarra. Le ho scattate al manicomio di Racconigi il giorno della maratona fotografica, correva l’anno 2019; è raro trovare un mio scatto urbex in bianco e nero, ritengo che il genere richieda il colore (lascio le eccezioni al ritratto), ma per una volta ho deciso di fare uno strappo alla regola. Le ho presentate in concorso (non tutte in realtà), quasi per gioco, per provocazione: anziché esaltare le bellezze ho preferito puntare il dito sulla piaga. Risultati scarsi ovviamente, ma questo anche per colpa della Canon EOS 77D che quel giorno sostituiva l’ammiraglia in riparazione post-trauma. Nelle prossime ore tornerò in modo ampio sull’argomento Fabbrica delle Idee, ergo possiamo tranquillamente definire queste immagini come una sorta di prologo.






Love is the answer, and you know that for sure; Love is a flower, you’ve got to let it grow.
– John Lennon

Il 13 Maggio 1978 entrava in vigore la famosa Legge Basaglia: “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Sono passati solo 40 anni dalla legge che in Italia impose la chiusura dei manicomi, eppure se parliamo di camicie di forza ed elettroshock sembra di raccontare un altro mondo.
Il manicomio di Racconigi, definito sarcasticamente
Fabbrica delle Idee, è una struttura imponente nel pieno centro cittadino. E’ rimasto attivo dal 1871 al 1999, arrivando ad ospitare sino a 1500 pazienti. E’ diviso in padiglioni, il più importante, il più grande, è sicuramente il
Chiarugi nel quale venivano alloggiati (e in alcuni casi internati) i malati di mente. Le condizioni della struttura non sono buone, ci sono i segni di un incendio recente e molti pavimenti (soprattutto all’ultimo piano) sembrano sul punto di cedere da un momento all’altro. Tutte le stanze nascondono qualcosa di interessante, di misterioso, girando per i corridoi si respira un’aria particolare: quando si esplora un
manicomio abbandonato si riescono quasi a percepire le presenze dei
malati, si intuisce come doveva essere la vita all’interno della struttura. E’ come un incredibile viaggio nel passato e nella storia del paese.
Da anni ormai si parla di riconversione, soprattutto per la zona in cui si trova lo stabile: in pieno centro cittadino; eppure per una serie di motivi politici, finanziari e architettonici la situazione non si sblocca. Ed è un vero peccato. In questi giorni, complice l’importante ricorrenza storica, ho letto tanti articoli sugli ex manicomi in Italia e sulla loro situazione attuale: Racconigi non è l’unica città a vivere questa situazione, mi vengono in mente Voghera, Volterra, Vercelli, Genova, Mombello. Il punto è che ci sono anche esempi positivi al quale ispirarsi, come l’ex ospedale psichiatrico di Trieste dal quale partì la rivoluzione Basagliana: oggi è in parte recuperato e trasformato. Lo spazio non manca, le idee probabilmente nemmeno, i soldi si trovano: credo che nel 2018 sia giusto e doveroso far partire una nuova rivoluzione, sempre nel nome di Franco Basaglia, che permetta all’Italia di liberarsi di queste strutture fatiscenti per creare qualcosa di nuovo.







Il manicomio di Racconigi, unico in provincia, venne allestito nel 1871 nel padiglione «Chiarugi», un palazzone di oltre diecimila metri quadrati, costruito a cavallo fra 700 e 800, prima come ospizio per i poveri, poi adibito fino al 1868 a collegio militare. Un uomo e una donna rispettivamente di Barge e Monastero Vasco, nel 1871, furono i primi ricoverati. Con gli anni, in particolare dopo la Grande Guerra 15/18, la struttura si ingrandì, fino ad occupare una dozzina di ettari. Si aggiunsero altri padiglioni: il «Morselli», il «Marro» e il «Tamburini», la lavanderia, la centrale termica, la colonia agricola, il parco, l’acquedotto. Una «città nella città» totalmente autosufficiente. Negli anni ’70 i ricoverati sfioravamo i 1.500 e vi lavoravano più di trecento addetti: 7 medici, 52 infermiere, 121 infermieri, oltre a 67 suore (che agli inizi erano 140), impiegati, cuochi, sarti, muratori, macellai, panettieri. (La Stampa)

























Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione. (Franco Basaglia)