Queste foto sono un po’ strane, sono una specie di anticipazione bizzarra. Le ho scattate al manicomio di Racconigi il giorno della maratona fotografica, correva l’anno 2019; è raro trovare un mio scatto urbex in bianco e nero, ritengo che il genere richieda il colore (lascio le eccezioni al ritratto), ma per una volta ho deciso di fare uno strappo alla regola. Le ho presentate in concorso (non tutte in realtà), quasi per gioco, per provocazione: anziché esaltare le bellezze ho preferito puntare il dito sulla piaga. Risultati scarsi ovviamente, ma questo anche per colpa della Canon EOS 77D che quel giorno sostituiva l’ammiraglia in riparazione post-trauma. Nelle prossime ore tornerò in modo ampio sull’argomento Fabbrica delle Idee, ergo possiamo tranquillamente definire queste immagini come una sorta di prologo.
Gli anni che fuggono, inarrestabilmente, ci portano via una cosa dopo l’altra.
– Quinto Orazio Flacco
Voglia. Credere in qualcosa, sempre e comunque.
Tempesta che azzera la mia volontà.
Ostico e veloce: tempo.
Una voce fuori. Rotta dalla paura.
In frantumi la mia lucentezza.
Partire, è un po’ morire, è morire rispetto a ciò che si ama: si lascia un frammento di se stessi in ogni ora e in ogni luogo. (Edmond Haraucourt)
Tutti gli anni, in questa data, pubblico una foto scattata fra l’inizio e la fine dell’anno. E’ una tradizione consolidata da queste parti. Ma quest’anno no. Quest’anno ho scelto, mio malgrado, una foto scattata a novembre, una foto che mi possa servire da promemoria. Un’immagine che possa ricordarmi di non commettere uno degli errori più classici e banali che un fotografo possa fare. Si, perchè il 31 dicembre ho scattato diverse foto, alcune anche (credo) interessanti. Purtroppo ho dimenticato di controllare le impostazioni, almeno quelle più rare (permettemi l’espressione): in effetti non mi capita mai di modificare la qualità delle immagini, ma venerdì scorso, per provare un servizio web, ho scattato una foto (una sola) alla risoluzione minima consentita dalla macchina fotografica: 720×480. E il giorno dopo ho premuto quasi 100 volte il pulsante di scatto senza ricordarmi di verificare la risoluzione; ho controllato tutte le altre opzioni, ma alla risoluzione non ho proprio pensato. E questo mio personale delirio fotografico spero possa tornarmi utile in futuro, per evitare di commettere nuovamente un errore del genere. Per il momento non voglio parlare di dove e perché ho scattato questa foto; si tratta però di uno scatto F/1.2 a 3200 ISO: praticamente al buio. E poi si augura ‘Buona Luce‘.
Mi sono addentrato per pochi minuti fra le macerie di Poggioreale, non sono riuscito a resistere e sono dovuto scappare. L’atmosfera è inquietante, il silenzio irreale. Fa quasi paura. Mi è sembrato di violentare il ricordo di chi, nel 1968, viveva in queste case del profondo sud; una sensazione brutta, che si attacca alla pelle e non scivola via. Mi sono sentito in colpa, mi sono vergognato della macchina fotografica. Sono passati quasi 50 anni, ma qui il tempo si è fermato a quel maledetto giorno del Gennaio 1968.
Era la notte tra il 14 e il 15 Gennaio 1968, quando un violentissimo terremoto scosse la terra nella Valle del Belice, tra le province di Agrigento, Trapani e Palermo. 400 morti e quattro centri abitati rasi al suolo. Il comune maggiormente colpito fu Poggioreale, che dopo il terremoto venne abbandonato al suo destino, diventando una vera e propria città fantasma. (Da Repubblica.it)