Le ferrovie sono qualcosa di sorprendentemente silenzioso, quando non ci passa sopra il treno.
– Haruki Murakami
Il 2 Marzo è la giornata nazionale delle ferrovie dimenticate (c’è anche un concorso fotografico). E proprio dietro casa mia, a Beinette, c’è una stazione abbandonata. Non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione (a dire il vero mi hanno quasi costretto). La linea ferroviaria Mondovì-Cuneo è stata soppressa il 17 giugno 2012 dopo 125 anni di servizio. Non ho aggiunto il termine ininterrotto perché rimase chiusa per ben 7 anni (fino al 2003) a causa del crollo del ponte sul Gesso in seguito all’alluvione del 1996. E’ in stato di totale abbandono da quasi due anni: pochi ne sentono la mancanza ma non si parla di alternative, non si parla di conversione. Ed è un peccato perché camminando sui binari si sente la storia, si può percepire ancora il rumore del treno. Ed è davvero una sensazione molto strana.
Sei in stazione, al binario, è aspetti l’ultimo passaggio notturno. Insieme a te pochi altri, il freddo (nonostante la Liguria) è pungente. Mancano ancora dieci minuti all’arrivo del treno e il mare davanti a te è nero e meraviglioso. La luna ti guarda con espressione stranita e sembra quasi un punto di domanda. Che può fare un fotografo? Semplice, aprire il treppiede, impostare un tempo di 15 secondi e scattare a f/8. Una foto praticamente. Non ha importanza se intorno a te tutti ti guardano come fossi un alieno. L’importante è riuscire a trovare una fotografia che rappresenti perfettamente il momento. Ed è questa qua. :)
Qualche tempo fa scrissi che il primo post più bello che avessi mai letto era quello di Valentina intitolato La Partenza. L’immagine che accompagna quel testo, dedicato al viaggio, era un tram di Lisbona. E allora mi sembra giusto, a distanza di tempo, tanto tempo, aggiungere alla mia foto il suo racconto, la sua descrizione del viaggio. Buona lettura. ;-)
Ogni volta che sono partita, la mia vita ha fatto un piccolo balzo nervoso – come la puntina dei vecchi giradischi sugli LP impolverati dei genitori. In ogni partenza c’è ogni cosa, e più di tutto c’è la vita che fa cortocircuito. Le valige, ad esempio. Nelle valige mettiamo tutto il superfluo di cui non possiamo fare a meno, gli oggetti più belli accanto a quelli più vecchi; il funzionale e l’elegante, il tacco e l’infradito, il maglioncino di lana e la canotta. Il tanga e l’assorbente, per dire. E sono cose talmente banali sulle quali è probabile non ci soffermiamo mai a pensare; sono il nostro mondo tascabile, il nostro ego fuori da noi stessi, l’anima che si materializza. Mara ad esempio, quando andammo a Praga, portò nella valigia un rotolo srotolato di carta assorbente da cucina. Per l’igiene intima, mi spiegò. Questo credo che renda l’idea.
Con la valigia pronta si parte per gioia, per dimenticare, per festeggiare, per commemorare, per darsi un’altra chance o per darla a qualcun altro. Si parte anche per smettere un attimo di essere se stessi, tirare un sospiro di sollievo dalla quotidianità, dai soliti ruoli, le stesse maschere. Si parte per nascondersi o per svelarsi, forse anche a se stessi. Si parte per amore, per curiosità o per dolore. Si parte perché ci va, e si parte anche se non ci va: perché ci sono momenti in cui partire è l’ultima spiaggia davvero – anche se poi si va in montagna. Si parte per sete di conoscenza, per egoismo, lusso o vizio; ma si parte pure per altruismo, fratellanza e solidarietà. Si parte per omologarsi a “tutti gli altri”, e si parte per protestare, rompere gli schemi, chiamarsi fuori. Si parte per seguire una strada, perderne cento, inseguire un sogno o seminare un incubo. In fondo, si parte solo perché la vita è un viaggio che ha destinazione certa. Si parte, quindi, per dimenticare la morte ma, come scrive Enrique J. Poncela, per trovare il senso della vita non c’è niente come morire.
E allora: viaggiamo! (Valentina Calzia)