Certe foto nascono prima ancora di impugnare la macchina fotografica. Le vedi formarsi all’improvviso, come un lampo nella mente. È successo così anche per questa foto: la scena davanti a me si è trasformata in un’immagine già composta, già mia, prima ancora che potessi pensarci davvero. Lì ho capito che quella era una mia foto, inconfondibile. La scritta in alto, la figura umana perfettamente posizionata, l’equilibrio pulito tra linee e spazi, tutto dentro un’architettura moderna e minimalista. Una sintesi visiva che mi rappresenta, come se il luogo sapesse che sarei passato di lì, in quel preciso momento. Come se mi aspettasse.
Quando la scena si è finalmente svuotata, avevo già la macchina in mano (come sempre), pronta: apertura massima, ISO 400 per non sbagliare, tempi rapidi. In una frazione di secondo ho scattato cinque foto, poi mi ha guardato, come se sapesse. Non credo di aver colto l’espressione perfetta del soggetto, non è mai semplice, ma la geometria sì, quella l’ho presa al volo, anche perché l’avevo già costruita nella mente da qualche minuto. Ed è per questo che la foto mi piace. Perché mi assomiglia: minimale, essenziale, matematica. Ma dietro, un battito veloce, troppo veloce. Alla fine, penso che la fotografia sia proprio questo: un dialogo tra l’immagine che immaginiamo e quella che riusciamo a catturare. A volte ci si avvicina, altre ci si sfiora appena. Ma ciò che resta è sempre un frammento della nostra visione, una traccia di come vediamo il mondo. E in quei pochi secondi, mentre l’otturatore si chiude, c’è sempre un po’ di noi che si ferma, anche se solo per un attimo.