PHOTOSNEVERSLEEP di SAMUELE SILVA - Fotografia Urbex, Ritratto e Reportage
POSTED ON 9 Mag 2025 IN
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Villa Infinito è un luogo fuori dal tempo. Un palazzo che sta cadendo a pezzi, ma che riesce ancora a colpire per la sua bellezza. La facciata è segnata dal tempo, ma sobria ed elegante. All’ingresso, una scalinata ampia accoglie e lascia di stucco: i gradini sono ricoperti di detriti, ma si intuisce ancora la loro imponenza. Le colonne, robuste e classiche, sorreggono un soffitto annerito dall’umidità, mentre una balaustra in pietra accompagna lo sguardo verso un affresco incorniciato. Mostra un palazzo sul bordo di un lago, sotto un cielo azzurro con nuvole leggere. È un’immagine serena, quasi fuori luogo nel contesto decadente che la circonda. Purtroppo il tetto sopra l’affresco è crollato, e la pioggia ha iniziato a cancellarne i dettagli.
Dentro la villa, il silenzio è assoluto. Le stanze sono vuote, i pavimenti ricoperti di polvere e frammenti di intonaco. I soffitti a cassettoni, anche se in pessime condizioni, raccontano ancora l’attenzione al dettaglio di chi ha fatto costruire questo posto. Non c’è più nulla di prezioso, ma resta l’atmosfera: una calma irreale che mette quasi soggezione. Tra tutte, è il bagno a colpire di più. I sanitari, in ceramica d’epoca, sono ancora lì, un po’ consumati dal tempo ma interi. Sulla parete, due pulsanti con targhette incise: domestico e cameriera. Un dettaglio curioso che riporta subito a un’altra epoca, quando in casa c’erano persone che lavoravano in silenzio dietro le quinte. È uno di quei particolari che fanno sorridere e riflettere allo stesso tempo.
In una stanza laterale, appoggiata ad una porta, c’è una vecchia macchina da cucire Necchi. Si riconosce dal logo in rilievo sulla base in ghisa. È uno dei modelli prodotti tra gli anni ’40 e ’60, quando il marchio italiano era sinonimo di qualità e innovazione. Massiccia, arrugginita, immobile: sembra uscita da una fabbrica del dopoguerra. E proprio lì vicino, come dimenticata da decenni, una fotografia in bianco e nero. Sono dei giovani in posa, sorridenti, probabilmente i figli dei proprietari di un tempo. Nessun nome, nessuna data. Solo una traccia lasciata per caso o per scelta, l’unico segno personale rimasto in tutta la villa. Non ci sono fantasmi da evocare o leggende da raccontare. Solo un palazzo vuoto, che cade lentamente, e che riesce ancora a raccontare qualcosa con pochi oggetti, qualche affresco sbiadito e tanto silenzio. A volte basta questo.



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POSTED ON 6 Mag 2025 IN
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Villa Butterfly: un nome semplice, diretto, ma forse impreciso. Il vero nome avrebbe dovuto essere Villa Butterflies, al plurale, perché nella sala principale – quella che dà il nome alla location – le farfalle sono due. Due elementi decorativi curiosi, protagonisti assoluti in un ambiente che, nonostante l’apparenza, lascia una sensazione sospesa. Non è una villa che incanta per abbondanza di arredi o dettagli d’epoca. È moderna, essenziale, quasi priva di anima. Eppure qualcosa resta. Forse perché è uno di quei luoghi che, nonostante la sua essenzialità, ti catturano. O forse perché, tra la sobrietà dell’insieme, emergono piccoli oggetti simbolici: un ventaglio, una bambola, le due farfalle appunto. Dettagli che sembrano scelti con attenzione, ma che al contempo danno l’impressione di essere stati lasciati lì quasi per caso, come a creare un’atmosfera.
Ciò che davvero colpisce, e intriga, è il colore.
Il rosso. Forte, dominante, impossibile da ignorare. Un rosso vivo che attraversa tutta la villa: nelle farfalle, nei fiori finti, nelle tende, nella bicicletta in soffitta, in una piccola lampada in sala, nel passeggino, nella bellissima macchina giocattolo. E che in fotografia – lo sanno bene i fotografi –
è uno dei colori più complicati da rendere correttamente: per diverse ragioni legate alla fisica della luce, al funzionamento dei sensori digitali e alla gestione del colore nei software.
Il rosso è tra i primi a saturarsi, perché i sensori digitali lavorano con tre canali principali (RGB – rosso, verde, blu) e il
rosso, in condizioni di luce intensa o su superfici particolarmente sature, tende a
bruciarsi (
effetto clipping). Quando succede, perde dettaglio, diventa piatto, innaturale (e quasi impossibile da recuperare in post).
Questo accade anche perché i sensori usano un filtro a matrice Bayer, dove il 50% dei pixel è verde, il 25% blu e solo il 25% rosso: significa che il sensore raccoglie meno informazioni proprio su questa componente, rendendola meno precisa nella ricostruzione del colore. In ambienti urbex, dove la luce è spesso instabile, filtrata o molto contrastata, le difficoltà aumentano. In più, la luce rossa ha una lunghezza d’onda tra i 620 e i 750 nanometri (nm), la più lunga dello spettro visibile: questo la rende soggetta ad aberrazione cromatica, specie ai bordi dell’immagine o con obiettivi meno corretti. Anche la messa a fuoco può diventare complicata. E in post-produzione, le sfide non si esauriscono: lo spazio colore sRGB – lo standard per il web – ha una gamma cromatica (gamut) limitata, e i rossi sono molto penalizzati. Pubblicare una foto con un rosso acceso sul web può significare perderne la profondità o vederla compressa, alterata.
Ecco perché, quando ho riguardato le foto, Villa Butterfly mi ha colpito così tanto: è un luogo in cui il colore stesso diventa protagonista, sfida e firma insieme. Fotografarla è stato complicato (e non ci sono riuscito), ma è stata anche un’occasione per riflettere su quanto, nella fotografia, un colore possa raccontare – o nascondere – e diventare storia.


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POSTED ON 1 Mag 2025 IN
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Villa Turchese ha una storia piuttosto particolare. O meglio, non tanto la villa in sé, quanto le fotografie che la raccontano. Le immagini che vedete qui (addirittura 48, sì, mi sono lasciato prendere la mano) sono il risultato di due esplorazioni distinte: la prima risale al 2023, la seconda al 2025. Le prime foto, quelle del 2023, non mi convincevano. Le trovavo piatte, poco incisive, con inquadrature sbagliate rispetto a ciò che avrei voluto realizzare. Soprattutto, non riuscivano a trasmettere l’atmosfera della villa, che qualcuno ha persino definito la più bella mai fatta: forse un giudizio un po’ esagerato (non deve aver viaggiato molto), ma sicuramente si tratta di un luogo affascinante e fuori dal comune.
Recentemente mi è capitato di vedere le foto scattate da alcuni volti nuovi nel mondo dell’urbex (qualcuno mi ha perfino definito esploratore storico: da un lato lusingato, dall’altro mi sono sentito improvvisamente più vecchio di dieci anni). Le loro immagini mi hanno colpito: la villa era cambiata. Gli arredatori avevano riorganizzato gli spazi, creando scenografie più curate, con composizioni studiate e più accattivanti. Così ho deciso di tornare.
L’accesso è semplice, senza particolari difficoltà (si supera facilmente un cancello: non serve Indiana Jones, basta un po’ di attenzione). Ma una volta dentro ho trovato un ambiente completamente trasformato. Questa volta mi sono preso più tempo, ho lavorato con più calma, e le foto mi soddisfano molto di più. La stanza principale, quella che dà il nome alla villa per le sue meravigliose pareti turchesi, è stata riorganizzata in modo evidente. Il tavolo è stato spostato, le bottiglie riordinate, un’ampolla di vetro (non saprei davvero come definirla: oggetto di design? boccia da pozione?) sistemata a terra, mentre un piccolo divano vintage è scomparso. Sono comparsi anche quadri raffiguranti la via Crucis. Tutto sembra pensato per una nuova narrazione visiva. Due elementi al piano terra mi hanno colpito in modo particolare. La piccola cappella interna è stata svuotata e ripulita: l’altare è ora visibile in tutta la sua semplicità, con una foto di Papa Giovanni XXIII, il papa buono, appesa alla parete. In quella che suppongo fosse la cucina è stato allestito un angolo che potrei definire museale: su un mobiletto sono apparsi un quadro di Don Giovanni Bosco, un’immagine della Madonna, un vecchio telefono, una coppa, foto e altri oggetti che prima non c’erano. Un allestimento decisamente più suggestivo.
Anche il piano superiore ha subito cambiamenti significativi. Una coperta giallo-oro, prima semplicemente piegata sopra il bordo di un letto, ora copre perfettamente un letto in un’altra camera (e pare stirata, miracolo!). È comparsa una lucidatrice, e gli oggetti sono stati ridistribuiti con una certa cura. L’ultima stanza, quasi vuota nel 2023, è oggi abitata da una serie di piccoli elementi: un casco che prima stava nella cappella, una giacca, una sedia in velluto molto particolare, una cravatta, delle scarpe, un cestino, e altri dettagli che arricchiscono la scena. Gli arredatori questa volta hanno davvero lavorato con criterio.
Guardando le foto del 2023 e confrontandole con quelle del 2025, la differenza è evidente. Ho pubblicato immagini di entrambe le visite, e in certi casi il confronto è quasi straniante: manca un arco narrativo coerente, come se ci trovassimo di fronte a due versioni diverse dello stesso luogo. La distanza tra i due reportage è dovuta sia a una maggiore consapevolezza tecnica da parte mia, nel 2023 avevo affrontato lo scatto con troppa fretta, in modalità mordi e fuggi, senza prendermi il tempo necessario per osservare davvero, sia a un’evoluzione compositiva: l’allestimento attuale, più ricco e ragionato, rende le inquadrature molto più forti. Anche se, lo ammetto, una parte di me teme che all’epoca fossi semplicemente molto meno preparato… o forse solo con l’ansia addosso.







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POSTED ON 28 Apr 2025 IN
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La Villa dei Levrieri appare all’improvviso, nascosta tra gli alberi, con il cancello d’ingresso lasciato aperto come se di lei non importasse più nulla a nessuno. La villa si trova circondata da alberi e vegetazione che ormai l’hanno quasi inghiottita. La sua facciata bianca spicca tra il verde, ma mostra tutti i segni del tempo e dell’abbandono. Si entra da una porta finestra che permette l’accesso ad una delle stanze al primo piano. Da lì, inizia un viaggio tra ambienti silenziosi e corridoi che raccontano una storia che non si riesce a comprendere.
All’interno la villa è ancora in buone condizioni strutturali. Le stanze sono ampie e luminose, più di quanto ci si aspetti in un luogo abbandonato. La luce naturale filtra senza ostacoli, riempiendo gli ambienti e rivelando i dettagli rimasti. Si incontrano oggetti sparsi qua e là: una strana bilancia di metallo, un organo polveroso ma quasi intatto, una cucina ancora riconoscibile nella disposizione e nei materiali. In alcune stanze ci sono tende sfilacciate, una poltrona rovinata, piccoli mobili dimenticati. Purtroppo, come spesso accade, la stupidità umana non ha limiti. Lo si capisce osservando le scritte lasciate da alcuni writers non troppo ispirati: frasi senza senso, firme sgraziate, simboli buttati lì con la grazia di un elefante su pattini. Roba che neanche in prima media, dopo due ore di matematica e una merenda andata male. Qualcuno ha pensato che scrivere upstairs is safe con lo spray sulle pareti della scala fosse una forma d’arte. Non sono ovunque, ma bastano per lasciare l’amaro in bocca.
Il punto più interessante dell’edificio è senza dubbio lo scalone centrale. È da lì che la villa prende il soprannome con cui è conosciuta. La ringhiera in ferro battuto è decorata con figure di levrieri stilizzati, snelli ed eleganti, che si ripetono a intervalli regolari. Alle estremità dello scalone un tempo c’erano delle teste di levriero scolpite, ma oggi non ne resta traccia: probabilmente sono state rimosse o rubate. Lo scalone, in marmo rosso e con un splendido corrimano di velluto, è ancora solido, e lo si può salire senza pericolo. È uno degli elementi più particolari che abbia mai visto in una villa abbandonata.
Al piano superiore ci sono varie stanze, alcune molto grandi. La stanza da letto padronale spicca per la presenza di affreschi, sia sul soffitto che su una parete. Curiosamente, sembrano appartenere a epoche diverse: il soffitto ha un’aria più antica, mentre il dipinto sulla parete, sebbene scenografico, è più recente e realizzato con una tecnica pittorica meno raffinata. La cosa che colpisce di più, però, è che il letto matrimoniale è ancora lì, intatto, con il copriletto al suo posto. È raro trovare elementi così personali in situazioni del genere: una bella sorpresa. Nelle altre stanze ci sono armadi cabina laccati in bianco e oro, in ottimo stato, che danno un’idea del gusto e del livello di comfort che doveva esserci. In una di queste si trova anche un altro camino, che riprende lo stile elegante e decorativo visto al piano inferiore. Non ci sono quadri, né libri, né foto. Nessuna traccia diretta delle persone che hanno vissuto qui. Solo la struttura della casa e pochi oggetti dimenticati.
Fuori, il giardino è invaso dalla vegetazione. La piscina è ormai una vasca vuota, piena di detriti, canna da bambù ed erbacce. Le statue che un tempo decoravano il parco sono sparite o distrutte. Resta poco, ma quel poco basta a far immaginare quanto doveva essere elegante ed eccentrico questo posto in passato. Non siamo riusciti a trovare informazioni certe sui proprietari della villa. Non c’è alcuna documentazione, nessun riferimento preciso. I dettagli architettonici fanno pensare a una famiglia molto benestante, forse con gusti un po’ bizzarri. Gente da levrieri, non da barboncini insomma. Ma il motivo dell’abbandono resta un mistero.
Abbiamo lasciato la villa con quella sensazione che spesso accompagna questo tipo di esplorazioni: il contrasto tra la bellezza di ciò che resta e la tristezza per ciò che è andato perso. La Villa dei Levrieri oggi è solo un guscio vuoto, ma conserva abbastanza elementi da raccontare un passato interessante, anche se frammentario. E forse è proprio questo il suo fascino.







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POSTED ON 27 Apr 2025 IN
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Raccontare e descrivere Villa dei Ventagli non è affatto semplice, perché si tratta di un’esperienza unica, come direbbe Battisti, un tuffo dove l’acqua è più blu, un viaggio che ti porta in un luogo anche più affascinante del solito. Non voglio soffermarmi troppo sulle circostanze del perché, voglio partire subito con la storia. Sono arrivato al mattino presto, il tempo a mia disposizione era pochissimo. Alle 6.30 ero davanti al cancello, e alle 8 avrei dovuto essere già fuori. Il tempo è tiranno, la sicurezza una priorità: il luogo è controllato e molto in vista, l’esplorazione deve essere discreta, quasi invisibile. Il giardino è completamente incolto, e già da fuori si capisce che la casa è in stato di abbandono almeno apparente. L’ingresso non è semplice, si scavalca un cancello alto, ma con velocità di esecuzione e un po’ di coraggio, in pochi secondi, sono all’interno.
Una volta dentro, mi dirigo subito
verso la stanza principale, la sala padronale, e il suo fascino mi rapisce. È proprio
come l’avevo immaginata, come l’avevo vista nelle foto. Fuori è ancora buio, l’alba si sta facendo strada, e mi rendo conto che la luce cambierà rapidamente, diventando più intensa di almeno due stop. Scatto alcune foto di sicurezza per non perdere nulla, e salgo le scale. Arrivato al secondo piano, mi accorgo subito che la luce è più forte. Il sole è uscito, e la stanza appare con una chiarezza che mi permette di notare ogni dettaglio. La prima cosa che cattura la mia attenzione è
uno studio, un po’ disordinato: sul tavolo c’è un
catalogo di figurine Liebig. Si tratta di una raccolta storica, pubblicata ininterrottamente dal 1872 al 1975: non ne avevo mai viste così tante insieme, una meraviglia. E poi quella scimmia, non ho parole per descriverla.
Le stanza da letto è altrettanto affascinante, forse anche di più, e il volto di un felino su un tappeto mi osserva dalla balaustra delle scale. Ridiscendo, fermandomi a fotografare una mensola con un coniglio che sembra quasi reale. Arrivo all’ingresso, dove la porta principale è sprangata. Fotografo i quadri con i ventagli appesi alle pareti: ventagli d’epoca, molto probabilmente, con solo il pavese dentro una cornice. Una statua in legno, di provenienza esotica, mi osserva con un ghigno di disprezzo, scatto una foto alla veranda, i cui colori sono caldi, dolci e intensi grazie alla luce dell’alba che sta ormai filtrando dalle vetrate. C’è anche un bagno curioso, con un lavandino verde e uno stanzino con il telefono, dove probabilmente la padrona di casa, alla fine del secolo scorso, trascorreva molto tempo attaccata alla cornetta.
Il cuore pulsante della villa, però, è senza dubbio la sala. Addirittura cinque grandi finestre illuminano la stanza, e ovunque ci sono ventagli: appesi alle pareti, in vetrina, sopra un tavolo, attorno al caminetto, sulle sedie; al centro della stanza un mobiletto con le ruote, pieno di alcolici, attira la mia attenzione (non potrebbe essere altrimenti). Mi concentro e scatto quante più foto possibili, anche troppe, cercando di catturare ogni particolare e ogni ventaglio. Il tempo scorre veloce, il limite orario si avvicina, devo andare. Non sono del tutto soddisfatto delle foto, ma mi accontento della luce che sono riuscito a sfruttare e dei colori che ho catturato. Ho fretta.
Prima di uscire, noto una tartaruga sotto una sedia, apparentemente a riposo, ma con uno sguardo di sfida, sfrontato, fastidioso. Sposto leggermente la sedia, la fotografo, e poi fotografo nuovamente la stanza, un’ultima volta. Finalmente, lascio la villa, esco dall’algoritmo. Sono fuori in giardino, non c’è nessuno. Scavalco nuovamente il cancello e, mentre mi allontano, vedo un signore che mi saluta gentilmente. Ricambio il saluto, buongiorno, e salgo in macchina. E’ stata un’esplorazione breve, ma intensa, emozionante e affascinante. La villa racconta la storia di una persona, una collezionista, che per la sua passione avrebbe fatto qualsiasi cosa: figurine, ventagli, bamboline strane, oggetti di ogni tipo. Una persona che amava raccogliere e custodire, che amava il bello. Mi allontano, sperando che questa villa, come tante altre, non finisca nell’oblio dei famigerati urbexer e nelle mani di chi, purtroppo, cercherà di rubare e distruggere. Ad Maiora.








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POSTED ON 25 Apr 2025 IN
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La Villa del Patriota è una di quelle esplorazioni urbex che lasciano il segno. Mi era stata consigliata con entusiasmo, e non a caso: questa villa incarna perfettamente il fascino della decadenza e dell’antico. È una dimora molto datata, e lo si percepisce subito.
Appena entrati si viene immersi in un passato lontano. Gli oggetti rimasti risalgono ai primi del Novecento, quindi a oltre un secolo fa. La villa deve il suo nome alla presenza, nella stanza principale, di un quadro raffigurante Mazzini e Garibaldi. Quella stanza, vista in precedenza in alcune foto, è decorata con una tappezzeria azzurra a quadretti che ricorda le tovaglie tipiche delle case di campagna italiane. Un dettaglio semplice, ma difficile da dimenticare.
Ho esplorato ogni angolo della casa con attenzione. Ogni ambiente sembrava raccontare una storia. Il bagno conserva ancora un sanitario dei primi anni del secolo scorso, le piastrelle sono quelle di una volta, e la sala da pranzo è ricca di oggetti antichi: una cartina del Touring Club Italiano (con la pubblicità della benzina Lampo) e l’annuario generale 1932-33, scatole di tonno d’epoca, vecchi biglietti da visita, lettere e volumi antichi. Alcuni di questi oggetti non li ho fotografati, per rispetto della privacy, vista la presenza di nomi e dettagli personali.
Poco prima di uscire ho avuto una strana sensazione, come se mancasse qualcosa. Un ricordo sfocato, ma insistente, mi riportava alla stanza con la famosa tappezzeria azzurra. La mia memoria, solitamente labile, ha avuto la meglio sulla fretta. Così ho deciso di tornare indietro e controllare di nuovo. Ho perlustrato la casa più volte, senza successo. Eppure quella stanza doveva esserci, ero sicuro. A un certo punto ho pensato alla scala secondaria, mi era sfuggita. In cima, due stanze. Una era quasi vuota, conteneva solo un baule pieno di fogli, libri, spartiti musicali. L’altra, invece, era esattamente quella che stavo cercando: non avrei mai pensato fosse così isolata.
Quella stanza è il cuore della villa. Anche se in condizioni precarie, sporca, con mobili rotti, muffa sul pavimento e oggetti sparsi, conserva un’atmosfera delicata. Sulla parete troneggia il quadro con Mazzini e Garibaldi (pensiero ed azione) che dà il nome alla casa. Il disegno sembra ricalcare uno stile patriottico tipico di fine Ottocento, in cui Mazzini e Garibaldi (o altri padri fondatori dell’Unità d’Italia) vengono inseriti in una cornice decorativa con alloro e strette di mano, a celebrare l’unione e l’ideale nazionale. Queste stampe erano comuni nelle case italiane tra fine ‘800 e primo ‘900, soprattutto in ambienti borghesi o popolari con forti sentimenti risorgimentali. Non è una delle immagini più famose in assoluto, ma rientra in un filone molto diffuso: illustrazioni e stampe commemorative realizzate dopo l’Unità d’Italia, spesso distribuite in occasione di anniversari o ricorrenze. La litografia originale, datata 1874, è in mostra al Museo del Risorgimento di Torino.
Intorno, un insieme eterogeneo di oggetti: un paio di scarpe, un ombrello rotto, vecchi libri, una croce, due bauli devastati, un brutto uccello impagliato. Ogni dettaglio racconta un frammento di passato. Uno dei documenti trovati riportava la data: 1919. Si trattava di un quaderno di scuola elementare, scritto da una bambina, un dettato sull’acqua. Questo mi ha fatto riflettere su chi potesse aver vissuto lì. Forse persone che avevano conosciuto direttamente il periodo post-unitario, o che ne avevano comunque conservato una memoria forte. È affascinante pensare che queste stanze siano l’eco di vite lontane, eppure ancora presenti nei segni lasciati tra quelle mura.
È stata una visita intensa, ricca di suggestioni. Un frammento di storia e memoria sospeso nel tempo, difficile da dimenticare. Oggi è il 25 Aprile e si festeggia la liberazione dalla tirannia nazi-fascista, ma il patriota mi ha fatto pensare a questi oltre 150 anni di Unità d’Italia: che sia il Risorgimento oppure la Liberazione, per guardare al futuro con fiducia è fondamentale non dimenticare il passato e le persone che hanno dato la loro vita per la Patria.







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