Il passaggio nel giardino di Villa Hornet (non conosco l’esegesi del nome) è semplice: si entra da un cancello aperto sul retro, è una piccola via laterale, in strada non c’è nessuno. E’ mezzogiorno, fa caldo, nonostante l’autunno sia già iniziato da tempo. L’erba è gialla, incolta, ha sofferto il grande caldo dell’estate, in casa si entra attraverso una porta/finestra spalancata: sono già passati i ladri, ma siamo sicuri che all’interno non incontreremo nessuno perché il silenzio è ingombrante. Le stanze del piano di sopra sono totalmente a soqquadro, come se fosse passato uno tsunami; il primo piano invece è stranamente in ordine, un ordine anacronistico: statuine di ceramica, pupazzi, fiori finti, bottiglie, ventagli aperti in bella mostra, piatti, tazzine, un vestito da geisha di pizzo rosa appoggiato sulla poltrona, l’album delle fotografie abbandonato sul tavolo come se fosse l’ultimo ricordo da memorizzare prima di andare via. È una situazione strana, confusa, precaria, che mi lascia interdetto e non mi piace.