L’orologio del Museo d’Orsay gode da sempre di un’aura importante nei confronti del sottoscritto. Non so perché, non ricordo, devo aver visto qualche foto in passato, qualcosa che ha colpito la mia immaginazione. Sono andato a Parigi con il chiaro intento di riuscire a fotografarlo: ho programmato al secondo l’ora della visita per riuscire a godere delle ore migliori della giornata (fotograficamente parlando) all’interno del museo.
Tra il 1900 e il 1936 la gare d’Orsay fu un’importante stazione ferroviaria; dopo aver operato per molti anni con successo, all’inizio della seconda guerra mondiale fu utilizzata come centro di spedizione per i prigionieri. Cessò di fungere come stazione ferroviaria a causa del progresso tecnologico, che portò i treni ad aumentare di dimensione e di velocità, rendendoli inadatti ad operare nell’antica stazione. Solo nel 1977 fu presa la decisione di convertire la gare d’Orsay in un museo. La prima idea fu quella di abbattere il palazzo, ma l’edificio fu dichiarato monumento storico. L’interno ricorda ancora chiaramente una stazione ferroviaria e fu deciso di conservare l’orologio che nel tempo è diventato un vero e proprio simbolo di arte e cultura: un’icona del mondo moderno, assolutamente riconoscibile in ogni parte del globo.
Nella mia mente malata e fantasiosa avevo programmato di mettermi davanti, scegliere le condizioni di scatto migliori e, con tutta calma, scattare dalla posizione migliore per riprendere il celebre orologio. Ma il mondo ragiona in modo diverso dal mio cervello e quando sono arrivato al quinto piano del Museo d’Orsay sono stato accolto dalla folla: mal contate ci saranno state 100 persone in coda per scattare un selfie oppure una foto ricordo con l’orologio. Mi sono visto costretto a fare di necessità virtù e sfruttare il tempo fra uno scatto e l’altro dei visitatori per riuscire a trovare un momento, pochi istanti, libero. Che poi ho pensato che la silhouette delle persone non fosse così malvagia: ho spostato di 3 stop a sinistra e ho esposto per il mondo esterno; il risultato è una serie di foto che mettono in risalto l’orologio e la vista su Parigi. Per ottenere qualcosa di diverso avrei dovuto chiedere il permesso per scattare al di fuori dell’orario di apertura, magari poco dopo l’alba: e credo sia un permesso difficile da ottenere.
L’Ossario di Custoza è segnato in rosso nella mia personalissima mappa dei luoghi da visitare (in Italia). Perché è un simbolo, uno dei pochi, legato alle guerre d’indipendenza combattute nel 1848 e nel 1866, prima dall’esercito sabaudo e poi dall’esercito italiano; e il Risorgimento Italiano è da sempre un periodo storico che mi affascina. Sono arrivato alla biglietteria poco prima della chiusura (il biglietto costa pochissimo) e quindi mi sono visto costretto a fare un giro decisamente veloce: nonostante le dimensioni ridotte dell’Ossario (definire angusta la scala è riduttivo) sono riuscito a fotografare con il treppiede (senza pensare troppo) e mi sono anche permesso il lusso di cambiare obbiettivo. È un luogo che per certi versi può apparire macabro, ma è anche un monumento che permette di riflettere e, con un minimo di lucidità, comprendere cos’eravamo.
L’Ossario di Custoza è un monumento che si presenta come una torre a forma piramidale, alta quasi 40 metri. Fu inaugurato nel 1879 da Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, per conservare le spoglie dei caduti durante la prima e terza guerra d’indipendenza italiane, nel 1848 e 1866. La storia di questo monumento è fortemente legata a quella di Don Pivatelli, parroco di Custoza, che ne promosse la costruzione. Egli nacque in una frazione di Villafranca di Verona nel 1832, e nel 1872 divenne parroco di Custoza, che fu teatro delle sanguinose battaglie d’indipendenza. Spinto dalla pietà nei confronti dei soldati che morirono per la libertà della loro patria, senza ricevere nessun tipo di riconoscimento e lasciati seppelliti nelle fosse comuni, egli decise di trovare un luogo dove raccogliere le loro spoglie.
Ho giù pubblicato una foto zenitale di Palazzo Doria-Tursi, sede del Comune di Genova (si tratta anche di uno dei 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova diventati il 13 luglio 2006 Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO). In quel caso avevo scattato con il fish-eye, ma di ritorno a Genova mi sono visto costretto a cedere alla voglia di un nuovo tentativo con il 15mm ed il treppiede. Questa è sicuramente più pulita, più lineare, ma se devo essere sincero preferisco quella che scattai nel lontano 2017: ha un fascino superiore. Segnalo che per eliminare un paio di difetti ho fatto ricorso all’Intelligenza Artificiale di Photoshop, che sostanzialmente ha fatto un bel lavoro. :)