La Cappella di Santa Croce si trova a Mondovì Piazza ed è una perla straordinaria nascosta al grande pubblico da palazzi moderni e da una viabilità troppo decisa. Questo piccolo gioiello, composto da un’aula unica di modeste dimensioni che contiene affreschi datati 1450-1470 attribuibili ad Antonio Dragone da Monteregale, esisteva già nel 1297 e apparteneva al Convento dei domenicani. Nel 1745 venne chiamata erroneamente Cappella di San Magno in seguito ad un’epidemia di peste bovina; venne ampliata nel XVII secolo con il portico antistante l’ingresso e un campanile a pianta quadrata. Il ciclo pittorico ricopre, per 55 metri quadrati, le pareti e la volta della cappella e si presenta come un’elevata iconografia particolarmente originale e rara per i temi trattati e la ricchezza di figure simboliche che rappresentano un unicum nell’ambito del gotico piemontese. Nell’opera si notano influenze dello Jacquerio e si riconoscono elementi di continuità con gli affreschi della chiesa di N.S. della Monta di Molini di Triora (Imperia).
Ho scattato le foto d’insieme con il 14mm Sigma Art mentre ascoltavo la voce narrante raccontare la storia della Cappella e spiegare nel dettaglio gli affreschi. I particolari invece sono opera del 50mm Canon RF. Sono rimasto davvero molto sorpreso dalla qualità dell’applicazione (scoperta quasi per caso) che permette l’entrata in autonomia semplicemente prenotando l’orario di visita: le luci all’interno si accendono in sincronia con la spiegazione illuminando i dettagli descritti. Semplicemente bellissimo.
Mi sono ritrovato quasi per caso ad Albra, una piccola borgata sopra Ormea, e ho subito notato la bellissima chiesetta in cima alla collina che sovrasta le case (quasi tutte disabitate). Sono salito, ma purtroppo di accesso per entrare nemmeno l’ombra. Sono tornato verso le case quando ho sentito un rumore e ho trovato Italo, un signore non più giovanissimo, l’ultimo abitante del paese. Dopo qualche parola di saluto e di presentazione gli ho chiesto se avesse informazioni su come poter visitare la chiesa: lui è entrato in casa e dopo qualche secondo è uscito con un enorme mazzo di chiavi; purtroppo le sue gambe non gli permettono più di camminare molto e mi ha chiesto di salire da solo. Quasi non ci credevo. Sono anche stato ulteriormente fortunato perché la domenica precedente si era celebrata l’unica funzione dell’anno e la chiesa era in condizioni praticamente perfette. Dentro è semplicemente meravigliosa, una perla rara, un insieme di reliquie, quadri, candelabri, statuine, ricordi, libri. Ho scoperto, dopo, che si chiama chiesa del Santo Sudario e risale al XVII secolo: sembra che qui sia passata la Sacra Sindone nel suo tragitto verso Torino. Ho chiuso e ho riportato le chiavi al custode: grazie di cuore Italo.
La piccola chiesa di Narbona dedicata alla Madonna della Neve è una specie miracolo. Non sono in grado di spiegare con le parole le emozioni che ho provato quando ho varcato la soglia di questa atmosfera incredibile. Si arriva nel borgo abbandonato dopo una discreta camminata (ma comunque adatta a tutti) di circa un’oretta e quando si percepisce la presenza di Narbona è già tardi: intorno è tutto un cumulo di macerie, di pietre, di rovine, fra le quali si intuisce la presenza di abitazioni e, una volta, di vita umana. Ma dopo qualche passo si scorge la chiesa: è perfettamente intatta e sembra aspettare il mio arrivo. La porta è chiusa con una chiavistello artigianale e tutto sembra chiedere rispetto, ci sono due sedie di legno sotto il porticato ancora in buone condizioni. Quando entro mi vengono i brividi: dentro è bellissima come solo può esserlo una chiesa in semi stato di abbandono. Il soffitto è dipinto di un blu acceso, ci sono le panche perfettamente allineate, un crocefisso, dei fiori freschi sull’altare, dei quadri appesi alle pareti, la statuina della Madonna che mi osserva e controlla. E il libro degli ospiti da firmare con le testimonianze delle persone che mi hanno preceduto e che hanno provato le stesse identiche emozioni. Non so chi si prende cura di questa meraviglia, ma solo una cosa devo dirgli: GRAZIE.
All’inizio dell’Estate, complice l’entusiasmo per l’arrivo della bella stagione, una domenica mattina ho deciso di alzarmi alle 5 e sono partito alla volta di Castelmagno. L’idea era quella di riuscire a fotografare il bellissimo Santuario dedicato a San Magno subito dopo l’alba per evitare la folla di pellegrini (e curiosi) che tutti i giorni visita il celebre luogo di culto. Impresa perfettamente riuscita: levataccia assurda, viaggio interminabile, ma alle 6 del mattino l’unica anima di fronte all’entrata del Santuario era il sottoscritto. Ho scattato con il grandangolo (sempre su treppiede) e con il drone per togliermi lo sfizio delle foto dall’alto. Temperatura esterna fresca e inferiore ai 10 gradi centigradi. Adesso mi piacerebbe tornare e riuscire a fotografare l’interno, che a quell’ora il Signore non si è degnato di aprirmi. Dormiva pure lui.
La Chiesa della Confraternita di San Giovanni Battista Decollato (definita anche dei Battuti Neri) si trova nel pieno centro di Carrù. La fondazione della Confraternita risale al 1616, mentre il rifacimento della Chiesa venne eseguito nella seconda metà del ‘700 ad opera dello scenografo/quadraturista Nicolao Dallamano, figlio di Giuseppe (non è un’informazione significativa, ma ho trovato ovunque questa discendenza e credo sia giusto riportarla). La definizione Battuti Neri deriva dal colore delle cappe dei membri della confraternita (nere appunto), il termine battuti invece perché durante le processioni si autoflagellavano. A Carrù esiste anche la confraternita dei Battuti Bianchi, all’incirca stesso periodo storico. Immagino dovesse essere un momento molto buio per il paese. L’interno della chiesa di San Giovanni Battista Decollato è qualcosa di meraviglioso e piange il cuore a pensare che al momento è utilizzata come semplice magazzino dalla parrocchia. Però è un gran bel magazzino, per certi versi scomodo, ma di lusso dal punto di vista estetico.
Per arrivare a questa piccola cappella (purtroppo non sono riuscito a reperire nessuna informazione) è necessario percorrere (a piedi) quasi 2000 metri. Si trova ai confini di un piccolo paesino del Piemonte, nascosta nella boscaglia, in stato di grande rovina e abbandono. Un vero peccato. Sull’altare sono appoggiati tre quadri, quasi delle icone, un po’ particolari. Un’arte diversa dal solito, con tratti molto spigolosi. Osservando con attenzione ho trovato, nascosti dietro l’altare e protetti con il cellophane, altri due quadri leggermente più grandi: sulla parte posteriore di tutti si trova una piccola etichetta adesiva, con un numero di protocollo e la dicitura Muzeul Etnografic al Transilvaniei, un museo che si trova a Cluji-Napoca in Romania, 100 anni di storia (quest’anno), uno dei più grandi e importanti del paese. Questo mi ha lasciato decisamente perplesso e non sono riuscito a darmi una spiegazione plausibile. Come sono arrivati questi quadri dalla Romania? Perché si trovano in una piccola cappella abbandonata? Cosa rappresentano? Ai posteri l’ardua sentenza.
La splendida chiesa di Santa Chiara si trova a Mondovì Piazza, in via della scuole. Fu progettata da Francesco Gallo e costruita fra il 1712 e il 1724; fece parte del convento delle monache clarisse fino al 1803, anno di soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone I. Passò alla confraternita delle monache Benedettine Cassinesi fino al 1867, dal 1928 al 1980 fu la chiesa delle scuole e del Convitto Civico, guidato dai Salesiani, nel 1981 fu sconsacrata e divenne proprietà del comune di Mondovì. È chiusa e lasciata al suo destino da circa 20 anni. Non ho certezza assoluta delle date, ma nei primi anni 2000 venne fatto costruire nell’edificio a fianco (nel frattempo diventato scuola di musica) un ascensore. Purtroppo la chiesa di Santa Chiara era già in condizioni precarie e in poco tempo l’umidità che saliva dalla tromba dell’ascensore (che si trova a stretto contatto con la parete sinistra della chiesa) porto al formarsi di una grossa crepa lungo la parete: non ci fu altra soluzione che decretare l’inagibilità e la chiusura a tempo indeterminato.
Entrare nei Battuti Bianchi di Carrù è un’esperienza sempre interessante. Non è vero urbex in quanto la chiesa, dedicata a San Sebastiano, è in fase di recupero grazie all’associazione Amici di Carrù che sta cercando di portare avanti un progetto alternativo come sede espositiva. Certo che i segni tipici dell’abbandono ci sono tutti e l’atmosfera è proprio quella dell’esplorazione urbana: ma entrare dalla porta secondaria con la chiave toglie un po’ di fascino all’esperienza. Un’ultima informazione prima dei cenni storici: dal 17 al 25 settembre 2022, in questa meravigliosa e importante location, verrà esposta Herem. Vi aspettiamo amici carruccesi. :-)
La Chiesa della Confraternita dei Battuti Bianchi, dedicata a San Sebastiano, si affaccia sull’attuale piazza Dante all’imbocco con via Mazzini (antica via della Piazza). La fondazione della Confraternita, che si occupava di bambini poveri e orfani, assisteva malati e diseredati, è antecedente il 1528, quando documenti ne attestano l’esistenza: l’antica sede del sodalizio sorgeva a levante della parrocchiale e fu abbattuta dopo la costruzione dell’attuale edificio. Nella seconda metà del ‘700, dopo un progetto di B.A. Vittone, rifiutato perché troppo grandioso, fu chiesta a Filippo Nicolis di Robilant (1723-1783) la pianta dell’attuale edificio, ch’egli risolse con singolare ingegno e straordinario gusto scenografico, avvezzo com’era all’elaborazione di apparati per i teatri e le feste di Corte. Il cantiere di costruzione si protrasse dal 1765 al 1774 e si avvalse dell’opera dello stuccatore F. Barelli; nel 1776 il pittore Toscanelli ne decorava pareti e soffitti con una sensibilità ed un’eleganza verosimilmente suggerite ancora dal Robilant. Successivi interventi decorativi (fratelli Prinotti, primo ‘900) reinterpretarono e coprirono parte delle antiche pitture che, fortunatamente, riaffiorano per la caduta di frammenti di colore. Il coro, con stucchi di N.Soleri, fu aggiunto tra il 1846-47 su disegno dell’architetto monregalese G.B. Gorresio. L’oratorio di San Sebastiano raccoglieva le famiglie di più antica storia presenti in paese: non a caso anche i Conti Costa della Trinità, Signori di Carrù (una tra le famiglie più in vista presso la Corte Sabauda) era legatissima a questa chiesa e fu Vittorio della Trinità, Viceré di Sardegna e Priore della Confraternita, ad invitare a Carrù l’amico Robilant, pagato dai confratelli con “regali di trifole, salmate di vino bianco, robiole, pescarie e volatili”.
La Cappella di San Bernardino racconta una storia di amore triste, di un amore eterno e disperato. Cesare et Amalia, lui conte di Villafalletto, lei olandese nata ad Anversa. Non conosco le loro vicende, ma questa lapide molto dolce e armoniosa mi ha fatto pensare ad una grande storia d’amore conclusa troppo presto e di un marito disperato che ha voluto suggellare l’amore della sua vita in questa piccola cappella di provincia. La struttura è abbandonata, credo ormai da qualche anno, e nessuno ne cura più la manutenzione: il portone è spalancato, i muri iniziano a scrostarsi e la vegetazione ha preso il sopravvento. Un vero peccato, perché anche in questa piccola chiesetta si racconta la storia del paese e dei conti Falletti di Villafalletto: ed è triste perdere le proprie radici.
Nel profondo Nord, in mezzo alla sconfinata pianura lombarda, ci si può imbattere -quasi senza volerlo- nella chiesa di Santa Croce. Non ho trovato molte notizie, sembra che dopo l’abbandono sia stata utilizzata saltuariamente, insieme a tutto il complesso che la circonda, per battaglie (usiamo questa definizione) di softair. Anche il nome potrebbe essere inventato, si tramanda, ormai da qualche anno, fra appassionati di urbex. L’esterno non è praticamente visibile, non sembra nemmeno una chiesa, l’interno invece è ancora decorato: è possibile accendere i lumini votivi che si trovano nei pressi dell’altare (se avete un accendino, meglio spegnerli prima di uscire) e il suo giallo paglierino, molto delicato, mantiene intatto un certo fascino. È apprezzata in modo particolare dai piccioni che hanno eletto questa chiesa a dimora preferita: praticamente solamente la parte centrale è intonsa, il resto è completamente ricoperto di guano. Tornato al campo base ho dovuto disinfettare il treppiede, ecco, non proprio una meraviglia: forse la definizione più indovinata sarebbe Chiesa del Guano. Di certo renderebbe meglio l’idea.
La chiesa di San Vito si trova fra le risaie di Vercelli e Biella. La sua costruzione si può far risalire ad un periodo databile fra il XVII e XVIII secolo. La sua posizione, isolata per l’epoca (le case intorno risalgono al secolo scorso), fa pensare che possa trattarsi di un ex voto, qualche evento miracoloso accaduto da quelle parti. Nel 900 venne utilizzata dagli abitanti della zona come chiesa locale, una sorta di succursale della parrocchia. Durante il giorno di San Vito (15 giugno) si festeggiava l’evento con una messa ed una bellissima festa che si protraeva sino a sera inoltrata. Dopo venne utilizzata sempre più sporadicamente sino a diventare abbandonata negli anni 90′. La chiesa di San Vito è davvero piccolissima: è lunga 10 metri e larga 4; non ha un vero campanile, ma una semplice e piccola torre. L’altare è perfettamente conservato e le panche, bassissime, sembrano ancora pronte per celebrare la messa e ospitare, rigorosamente inginocchiati, i fedeli.
La Chiesa della Santissima Trinità è un luogo sacro in assoluta rovina. È senza tetto (crollato durante il terremoto del 2000) e all’interno la vegetazione ha preso il sopravvento. Mi ha ricordato per certi versi la bellezza di San Galgano: semplicemente perché l’interno è pura magia. Non ha le dimensioni dell’abbazia toscana, è più piccola, ma probabilmente per questo anche più affascinante. Si trova a Fubine, un piccolo paese in provincia di Alessandria. Adesso è sigillata e si parla (ormai da tempo) di recupero; non credo sia un’impresa mastondotica e nemmeno costosa, basterebbe davvero poco per pulirla, metterla in sicurezza e renderla fruibile al pubblico. Perché è davvero tanto meravigliosa e affascinante nella sua nobile decadenza e deve essere condivisa e ammirata.
Sotto un telo è un titolo perfetto da dedicare alla Chiesa di Sant’Evasio a Carassone: perché sono ormai 11 anni che la Chiesa è un cantiere. È stato rifatto il tetto, ci sono stati lavori alla sacrestia e soprattutto i restauri agli interni che hanno consentito di riportare alla luce antiche pitture preesistenti. Sant’Evasio è sconsacrata dal XVIII secolo, è di proprietà del comune di Mondovì che non sa cosa farne: sarebbe dovuta diventare una sala culturale polivalente destinata a ospitare mostre, rassegne, convegni. Qualche anno fa si era ventilata l’ipotesi di un ritorno alla parrocchia che a sua volta l’avrebbe affittata alla comunità ortodossa, che a Mondovì non dispone di un proprio luogo di preghiera. Ma anche questa possibilità non si è concretizzata e la patata bollente è tornata in mano al comune. E Sant’Evasio è ancora coperta da un telo, ormai sgualcito, e non si vede nessuna possibilità di utilizzo nel futuro immediato.
Il Santuario di San Giusto si erge maestoso dietro il cimitero di Pocapaglia, in provincia di Cuneo. E’ dedicato al santo patrono locale e fu ricostruito, probabilmente su di una preesistenza, dal 1762 al 1769 sotto la direzione del mastro Carlo Traversa, ornata alcuni anni dopo con stucchi del Barelli; il campanile fu costruito dal 1788 al 1791. Una cronaca del ‘800 lo definiva come luogo al quale i locali e gli stranieri accorrevano continuamente per ottenere grazie e con varie processioni durante l’anno. È di proprietà comunale ed è in desolante abbandono, il sagrato è infestato dalle erbacce e gli stucchi settecenteschi dell’interno sono andati completamente distrutti. Alcune storie raccontano di sette segrete e incontri dedicati a Satana: addirittura ho letto che viene chiamata Chiesa del Diavolo. Chiaramente sotto tutte leggende, oggi del Santuario di San Giusto rimane pochissimo, l’interno è completamente devastato, gli altari quasi non si riconoscono. Peccato, un altro pezzo di storia destinato all’oblio.
Chiudo il cerchio a Voghera con le foto della chiesa, la chiesa dei matti. Sono 19 foto e con le foto dell’ex ospedale psichiatrico in totale diventano 90. La paura. Si tratta di un’esplorazione successiva in quanto la prima volta non fu possibile dedicarsi alla preghiera e all’adorazione del signore. Il manicomio è talmente grande che per arrivare alla cappella è necessario camminare quindici minuti fra corridoi interminabili e stanza vuote. Il silenzio rimbomba e l’ansia si percepisce sulla pelle. Ad un certo punto si arriva in un piccolo giardino, doveva essere molto bello all’epoca, e la chiesa è lì, centrale, come fosse in attesa di qualcosa. Dentro è bellissima, nella galleria si può quasi toccare il soffitto e ammirare da vicino le vetrate rotonde e colorate. È ancora incredibilmente intatta, è rimasta chiusa a lungo e si respira un’aria quasi affannosa. Era la chiesa del matti, ma poi bisogna capire davvero chi erano i matti.