POSTED ON 20 Apr 2025 IN
Landmark
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Il Tempio del Valadier era da anni sulla mia lista personale di luoghi da fotografare. Una di quelle mete che continui a rimandare perché davvero lontana, ma che resta sempre lì, fissa nella testa ogni volta che ti capita di rivederla online. La sua posizione così insolita – una costruzione neoclassica incastrata in una grotta – lo rende perfetto per una sessione fotografica mirata. La giornata non offriva molto dal punto di vista atmosferico: aveva appena smesso di piovere e il cielo era coperto da nuvole compatte, grigio e piatto. Niente luce scenografica, niente riflessi dorati: solo una scena statica da gestire con calma e precisione. Raggiunta Genga, ho affrontato il sentiero che porta al tempio. Servono circa 10-15 minuti per arrivare in cima: c’è un po’ di salita, all’inizio soprattutto, ma il percorso è facile, lastricato e regolare. Semplice, anche con lo zaino fotografico in spalla.
Per gli scatti ho utilizzato esclusivamente il treppiede e il grandangolo. Il soggetto si presta alle foto cartolina, quindi ho lavorato su composizioni pulite e leggibili, sulla qualità, giocando con la simmetria dell’edificio e il contrasto naturale della roccia. La struttura ottagonale in travertino si lascia fotografare con una certa facilità, soprattutto se non si cercano prospettive creative a tutti i costi: il colpo di genio non serve, è già bello così. Sono rimasto al Tempio circa 30 minuti, il tempo giusto per osservare, inquadrare, e scegliere gli scatti più interessanti. Le angolazioni non sono molte e sono quelle che si conoscono. Alla fine ho selezionato cinque foto, tutte dell’esterno. L’interno non aggiunge nulla di rilevante: architettonicamente povero, luce piatta, atmosfera assente. Una rapida occhiata e poi si torna all’esterno.
Il tempio si trova nelle Marche, nel comune di Genga, in provincia di Ancona, all’interno del Parco Naturale della Gola della Rossa e di Frasassi. Fu costruito nel 1828 su iniziativa di papa Leone XII, originario proprio di Genga, che lo pensò come rifugio per chi cercava silenzio e raccoglimento. Il progetto è firmato da Giuseppe Valadier, architetto neoclassico noto per il suo rigore geometrico. Realizzato in travertino chiaro locale, il tempio si incastra con precisione scenografica nella parete rocciosa. Poco distante, la grotta detta rifugio dei peccatori, un tempo usata per ritiri spirituali, oggi fa più la funzione di punto panoramico per la foto da pubblicare sui social.
Il Tempio del Valadier è un soggetto fotografico che funziona se si punta sulla pulizia dell’inquadratura e su un approccio diretto. Non è un luogo che si presta a invenzioni: è particolare, riconoscibile, e chiede solo di essere inquadrato nel modo giusto. Senza fronzoli, senza la pretesa di reinventarlo. È uno di quei posti dove si scatta, si pubblica, si archivia, e si spunta con soddisfazione dalla checklist.




POSTED ON 19 Apr 2025 IN
Reportage
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URBEX,
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La chiesa di Sant’Antonio si trova quasi nascosta tra le colline, lungo una strada poco frequentata, una strada di campagna, tutta curve e lontana dal mondo. Non è visibile dalla strada, quindi ho parcheggiato abbastanza lontano e ho iniziato a salire su una piccola, ma ripida, collina. Il terreno era irregolare e pieno di rovi e alberi, e quando sono arrivato in cima avevo il fiatone per la fatica. Nonostante il sole, il freddo era pungente, come se l’aria gelida di febbraio mi volesse tenere ancorato al terreno. Ma appena l’ho vista, tutta stanca e abbandonata, mi sono sentito subito attratto da quel posto solitario (avrei detto, ironicamente, dimenticato da Dio).
Le mura erano rovinate, lesionate in più punti, e il pavimento era pieno di calcinacci e detriti. Il soffitto, invece, era ancora intatto, anche se crepato in alcuni tratti, ma restava sorprendentemente bello. L’interno era sporco e polveroso, ma l’altare, anche se logorato dal tempo, e i dettagli del soffitto decorato si vedevano ancora. La luce del sole filtrava attraverso la porta principale e una laterale, creando un interessante gioco di ombre sulle pietre e sul pavimento. Il silenzio che c’era dentro dava un senso di calma, di pace interiore, come se il tempo fosse sospeso. Non so quanto tempo ancora resisterà, ma quel che resta oggi della chiesa è un pezzo di fede e di passato che, lentamente, sta svanendo.





POSTED ON 11 Apr 2025 IN
Reportage
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URBEX,
church

Era il 2020 quando mi trovai per la prima volta davanti a quella piccola chiesa abbandonata, accanto al palazzo che avevo chiamato Il Cielo all’improvviso. La porta era chiusa. Non c’era modo di entrare. L’esplorazione finì lì, lasciando una parte in sospeso.
Cinque anni dopo, nel 2025, ci sono tornato. Questa volta sapevo che la porta sarebbe stata aperta. Finalmente si poteva accedere. La chiesa è minuscola, l’interno completamente spoglio. C’è solo un altare, danneggiato in più punti, e un paio di lapidi incassonate nelle pareti, ingiallite dal tempo. Dentro regnava un silenzio assoluto. Fuori, sulla piazza accanto, si sentivano le voci allegre di bambine che giocavano. Ridevano, correvano. Io, invece, ero immobile, cercavo di non fare alcun rumore. Non solo per rispetto alla sacralità del luogo, ma per non farmi scoprire: qualsiasi suono avrebbe potuto essere percepito all’esterno. Quel contrasto tra la vita fuori e il vuoto dentro rendeva tutto stranamente irreale, quasi inquietante.
Ho scattato sei foto. Poche, ma bastano. Rappresentano l’ultimo pezzo mancante dell’esplorazione cominciata cinque anni prima: il cerchio, finalmente, si è chiuso.





POSTED ON 11 Apr 2025 IN
Reportage
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mansion

Nel cuore del sud della Francia, nascosta tra alberi e sterpaglie, al confine di una piccola città, abbiamo esplorato una villa abbandonata immersa nella natura. La struttura, in pietra e legno, conservava tutto il fascino autentico delle baite di montagna, nonostante la vicinanza al mare, e sembrava essere stata lasciata lentamente al trascorrere del tempo.
Fin dai primi passi all’interno, l’atmosfera appariva sospesa, come cristallizzata. Sul tavolo principale si vedevano ancora i resti di una partita a carte, bruscamente interrotta: le dernier match mi ha suggerito il mio amico francese. Accanto, tra oggetti sparsi — un vecchio telecomando, bicchieri, liquori — spiccava una meravigliosa bottiglia di Martini, capace ancora oggi di trasmettere quel senso di eleganza semplice e inconfondibile tipico dello stile del Bel Paese. Sulle scale, una giacca abbandonata sembrava raccontare di una fuga improvvisa, rafforzando l’impressione che tutto fosse stato lasciato di corsa. Anche in Francia l’amore per la costruzione e l’arredo si miscela perfettamente con le storie che le case custodiscono.
Proseguendo nell’esplorazione, siamo arrivati a una cameretta. Qui la muffa era particolarmente estesa: le pareti e il soffitto erano coperti da profonde macchie scure di umidità. Sul letto era appoggiata una vecchia valigia, mentre su una sedia accanto due orsacchiotti ci osservavano silenziosi, contribuendo a rendere l’ambiente ancora più inquietante. Al centro della stanza, un cavallo a dondolo di peluche, sporco e consumato, sembrava resistere al decadimento circostante. Tra tutti gli oggetti, però, quello che più colpiva era una maschera da saldatore. Un oggetto tecnico, ruvido, totalmente fuori contesto rispetto all’ambiente domestico, che dava una sensazione straniante, spezzando l’equilibrio della scena.
Nel garage, tra la polvere, la ruggine e vecchi oggetti accatastati, si trovava una
Panhard 24, affascinante esempio di ingegneria e
stile degli anni ’60; il frutto della visione audace della storica casa automobilistica francese. Simbolo di eleganza essenziale e
innovazione tecnica, questa coupé compatta, anche in stato di abbandono, conservava ancora un’aura raffinata e
anticonvenzionale. Purtroppo nonostante la qualità costruttiva e la bellezza delle sue linee, la Panhard 24
non riuscì a conquistare il mercato, segnando di fatto la fine di una delle più antiche case automobilistiche francesi. Uscendo
dal garage, abbiamo dato un’ultima occhiata alla casa. Era ancora lì, immobile, come sospesa. Sembrava che nessuno avesse mai avuto davvero il coraggio di concludere
l’ultima partita.
Adieu.











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Queste saranno le uniche parole che scriverò per raccontare il progetto White Monday. Un paio di anni fa mi era venuta l’idea di realizzare una serie di ritratti in studio utilizzando uno sfondo bianco e due luci flat a 45 gradi: white per il colore di fondo, monday perché avrei voluto pubblicare ogni scatto di lunedì. Poi il progetto si è interrotto molto prima di quanto avessi previsto, per diversi motivi (essenzialmente mancanza di tempo e un po’ di scarsa convinzione). L’ispirazione era quella di creare qualcosa di simile alle celebri foto in studio di Terry Richardson, e più precisamente a quella sua serie che definisco uno spin-off: una raccolta di ritratti realizzati quasi casualmente, con espressioni buffe, provocanti o divertenti, a personaggi celebri e famosi.
In realtà si è rivelato più complicato del previsto e sono uscito quasi subito dal percorso che avevo immaginato. Nonostante tutto, credo sia giusto iniziare a pubblicare qualcosa. Nel caso di
Zara sono riuscito a lavorare abbastanza fedelmente all’idea originale (credo sia l’unico caso): un solo look, qualche immagine in stile spin-off, e un tentativo di mantenere quello spirito leggero e diretto che avevo in mente. Si parte:
White Monday.