PHOTOSNEVERSLEEP di SAMUELE SILVA - Fotografia Urbex, Ritratto e Reportage
POSTED ON 6 Mag 2025 IN
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Villa Butterfly: un nome semplice, diretto, ma forse impreciso. Il vero nome avrebbe dovuto essere Villa Butterflies, al plurale, perché nella sala principale – quella che dà il nome alla location – le farfalle sono due. Due elementi decorativi curiosi, protagonisti assoluti in un ambiente che, nonostante l’apparenza, lascia una sensazione sospesa. Non è una villa che incanta per abbondanza di arredi o dettagli d’epoca. È moderna, essenziale, quasi priva di anima. Eppure qualcosa resta. Forse perché è uno di quei luoghi che, nonostante la sua essenzialità, ti catturano. O forse perché, tra la sobrietà dell’insieme, emergono piccoli oggetti simbolici: un ventaglio, una bambola, le due farfalle appunto. Dettagli che sembrano scelti con attenzione, ma che al contempo danno l’impressione di essere stati lasciati lì quasi per caso, come a creare un’atmosfera.
Ciò che davvero colpisce, e intriga, è il colore.
Il rosso. Forte, dominante, impossibile da ignorare. Un rosso vivo che attraversa tutta la villa: nelle farfalle, nei fiori finti, nelle tende, nella bicicletta in soffitta, in una piccola lampada in sala, nel passeggino, nella bellissima macchina giocattolo. E che in fotografia – lo sanno bene i fotografi –
è uno dei colori più complicati da rendere correttamente: per diverse ragioni legate alla fisica della luce, al funzionamento dei sensori digitali e alla gestione del colore nei software.
Il rosso è tra i primi a saturarsi, perché i sensori digitali lavorano con tre canali principali (RGB – rosso, verde, blu) e il
rosso, in condizioni di luce intensa o su superfici particolarmente sature, tende a
bruciarsi (
effetto clipping). Quando succede, perde dettaglio, diventa piatto, innaturale (e quasi impossibile da recuperare in post).
Questo accade anche perché i sensori usano un filtro a matrice Bayer, dove il 50% dei pixel è verde, il 25% blu e solo il 25% rosso: significa che il sensore raccoglie meno informazioni proprio su questa componente, rendendola meno precisa nella ricostruzione del colore. In ambienti urbex, dove la luce è spesso instabile, filtrata o molto contrastata, le difficoltà aumentano. In più, la luce rossa ha una lunghezza d’onda tra i 620 e i 750 nanometri (nm), la più lunga dello spettro visibile: questo la rende soggetta ad aberrazione cromatica, specie ai bordi dell’immagine o con obiettivi meno corretti. Anche la messa a fuoco può diventare complicata. E in post-produzione, le sfide non si esauriscono: lo spazio colore sRGB – lo standard per il web – ha una gamma cromatica (gamut) limitata, e i rossi sono molto penalizzati. Pubblicare una foto con un rosso acceso sul web può significare perderne la profondità o vederla compressa, alterata.
Ecco perché, quando ho riguardato le foto, Villa Butterfly mi ha colpito così tanto: è un luogo in cui il colore stesso diventa protagonista, sfida e firma insieme. Fotografarla è stato complicato (e non ci sono riuscito), ma è stata anche un’occasione per riflettere su quanto, nella fotografia, un colore possa raccontare – o nascondere – e diventare storia.


POSTED ON 4 Mag 2025 IN
Reportage
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Il sottotitolo potrebbe essere: una chiesa, due testardi e la pioggia. E sarebbe perfetto, avessi lo spazio per un sottotitolo. Quel giorno eravamo in giro per un itinerario ben definito, tempi decisi con il cronometro, ma una deviazione veloce ci ha portati nei paraggi di un pin segnato tempo fa come poco interessante. Era lì, nella mappa dei luoghi di scorta, quelli che in teoria non valgono la fatica: sono segnati in giallo. E invece, per una volta, ha funzionato.
Arrivati sul posto abbiamo subito capito la situazione: struttura blindata alla meno peggio, qualche cartello di pericolo (ma il pericolo è il nostro mestiere), facciata sbilenca, nessun tetto. L’edificio sembrava reggersi più per inerzia che per struttura. L’unico accesso era un varco alla base della porta principale, di quelli che ti fanno chiedere se hai davvero voglia di strisciare tra calcinacci e polvere per una foto. Dopo aver sbirciato dal buco abbiamo deciso che avremmo dovuto correre il rischio (dopo aver dato un’ultima occhiata al cartello di pericolo crollo).
Dentro la scena era surreale: travi spezzate, tavole ovunque, erba cresciuta libera e indifferente, pietre. I resti del tetto pendevano ancora in alcuni punti, come se stessero riflettendo sul momento giusto per venire giù, non sul se, ma sul quando: abbiamo sperato di non essere noi il momento giusto. Appena aperto gli zaini ecco che inizia a piovere. Forte. Troppo forte. Due scatti al volo con poca attenzione, massimo allerta. Io non mi sono spinto oltre la porta: troppo rischioso, troppo bagnato, poca voglia. Appena ho potuto, sono uscito di nuovo, passando a fatica per lo stesso buco da cui ero entrato: certi pertugi non sono pensati per la mia altezza.
Poi la pioggia si ferma, quasi per prenderci in giro, per sfottere. Lorena è ancora dentro, con coraggio si sposta verso il fondo della chiesa: le chiedo com’è la situazione. Mi dice che la visuale dal centro è interessante. Traduco: “Muoviti, vieni a vedere anche tu”. A quel punto, mi tocca rientrare: mi rimetto a carponi e passo di nuovo dal varco, stavolta fradicio e poco elegante. E aveva ragione. La scena valeva la fatica: il rosone centrale è perfetto, incorniciato da macerie e travi ed è, incredibilmente, ancora intatto. In mezzo al disastro, spicca come un occhio aperto sul cielo grigio.
Il nome originale della chiesa non lo conosciamo. Lorena ha deciso di chiamarla Sant’Anna delle Stelle, ispirandosi a un campeggio lì vicino e a una parete decorata con motivi che ricordano un cielo notturno. Nessuna leggenda, nessuna epica dimenticata. Solo detriti, pioggia e qualche dettaglio che resiste. Non sappiamo quanto starà ancora in piedi. Ma anche un posto segnato come non prioritario può regalare qualcosa, se ci passi al momento giusto. Basta essere disposti a strisciare due volte nello stesso buco. E se ti crolla in testa… era il momento sbagliato.




POSTED ON 2 Mag 2025 IN
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Il sottotitolo corretto sarebbe Il cerchio nelle risaie, ma il mare a quadretti sta scomparendo e trovare l’iconico (parola ormai abusata, ma che nel caso rende l’idea) cimitero abbandonato di Castell’Apertole circondato dall’acqua è un’impresa. Avevo visto le foto di questa piccola perla fra le pagine di un libro dedicato ai luoghi dimenticati del Piemonte: la mia curiosità mi ha portato due volte a visitare la zona delle grange. È un luogo abbandonato, ma nel tempo è diventato anche una meta turistica. Quando si passa da queste parti, è impossibile resistere alla tentazione.
Quando si parla di grange, si evocano immagini di tempi lontani, di campagne ordinate e monasteri operosi. Il termine affonda le radici nel latino granea — granaio —, passando poi attraverso il francese grange e lo spagnolo granja. Ma il vero motore della sua diffusione in Europa fu il dinamismo dei monaci cistercensi, che nel XII secolo, insieme a innovazioni agricole come la rotazione triennale delle colture, portarono anche questo modello di gestione dei terreni. Le grange erano vere e proprie aziende agricole, centri produttivi autonomi sotto il controllo diretto delle abbazie. Non si trattava solo di edifici, ma di un’intera organizzazione del lavoro: i monaci stessi o i conversi (monaci non ordinati) coltivavano i campi, allevavano bestiame, gestivano le risorse con una precisione quasi moderna. Castell’Apertole fu uno dei luoghi in cui questo sistema si radicò in profondità. Comprendeva ben sette grange, amministrate dalle potenti abbazie di Lucedio e San Genuario. Per secoli, la vita di Castell’Apertole seguì il ritmo paziente dei monaci e della terra, fino al 1695, quando il complesso fu ceduto al Regio Demanio Piemontese, segnando così la fine di un’epoca.
Il cimitero circolare di Castell’Apertole fra i luoghi dimenticati del Piemonte è forse uno dei più misteriosi. Non si conoscono con precisione né l’anno di fondazione né quello dell’abbandono. La sua pianta perfettamente rotonda, immersa nella distesa piatta delle risaie, richiama simbolismi antichi: il cerchio come protezione, come confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. All’interno, una minuscola cappella e poche lapidi consunte raccontano storie di cui si è persa ormai ogni memoria. Oggi il cimitero versa in totale stato di abbandono, ma conserva intatto il suo fascino silenzioso: quando si supera il cancello si percepisce il mistero e si prova un senso profondo di rispetto per ciò che è stato, immersi in un silenzio che sembra sospendere il tempo.


POSTED ON 1 Mag 2025 IN
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Villa Turchese ha una storia piuttosto particolare. O meglio, non tanto la villa in sé, quanto le fotografie che la raccontano. Le immagini che vedete qui (addirittura 48, sì, mi sono lasciato prendere la mano) sono il risultato di due esplorazioni distinte: la prima risale al 2023, la seconda al 2025. Le prime foto, quelle del 2023, non mi convincevano. Le trovavo piatte, poco incisive, con inquadrature sbagliate rispetto a ciò che avrei voluto realizzare. Soprattutto, non riuscivano a trasmettere l’atmosfera della villa, che qualcuno ha persino definito la più bella mai fatta: forse un giudizio un po’ esagerato (non deve aver viaggiato molto), ma sicuramente si tratta di un luogo affascinante e fuori dal comune.
Recentemente mi è capitato di vedere le foto scattate da alcuni volti nuovi nel mondo dell’urbex (qualcuno mi ha perfino definito esploratore storico: da un lato lusingato, dall’altro mi sono sentito improvvisamente più vecchio di dieci anni). Le loro immagini mi hanno colpito: la villa era cambiata. Gli arredatori avevano riorganizzato gli spazi, creando scenografie più curate, con composizioni studiate e più accattivanti. Così ho deciso di tornare.
L’accesso è semplice, senza particolari difficoltà (si supera facilmente un cancello: non serve Indiana Jones, basta un po’ di attenzione). Ma una volta dentro ho trovato un ambiente completamente trasformato. Questa volta mi sono preso più tempo, ho lavorato con più calma, e le foto mi soddisfano molto di più. La stanza principale, quella che dà il nome alla villa per le sue meravigliose pareti turchesi, è stata riorganizzata in modo evidente. Il tavolo è stato spostato, le bottiglie riordinate, un’ampolla di vetro (non saprei davvero come definirla: oggetto di design? boccia da pozione?) sistemata a terra, mentre un piccolo divano vintage è scomparso. Sono comparsi anche quadri raffiguranti la via Crucis. Tutto sembra pensato per una nuova narrazione visiva. Due elementi al piano terra mi hanno colpito in modo particolare. La piccola cappella interna è stata svuotata e ripulita: l’altare è ora visibile in tutta la sua semplicità, con una foto di Papa Giovanni XXIII, il papa buono, appesa alla parete. In quella che suppongo fosse la cucina è stato allestito un angolo che potrei definire museale: su un mobiletto sono apparsi un quadro di Don Giovanni Bosco, un’immagine della Madonna, un vecchio telefono, una coppa, foto e altri oggetti che prima non c’erano. Un allestimento decisamente più suggestivo.
Anche il piano superiore ha subito cambiamenti significativi. Una coperta giallo-oro, prima semplicemente piegata sopra il bordo di un letto, ora copre perfettamente un letto in un’altra camera (e pare stirata, miracolo!). È comparsa una lucidatrice, e gli oggetti sono stati ridistribuiti con una certa cura. L’ultima stanza, quasi vuota nel 2023, è oggi abitata da una serie di piccoli elementi: un casco che prima stava nella cappella, una giacca, una sedia in velluto molto particolare, una cravatta, delle scarpe, un cestino, e altri dettagli che arricchiscono la scena. Gli arredatori questa volta hanno davvero lavorato con criterio.
Guardando le foto del 2023 e confrontandole con quelle del 2025, la differenza è evidente. Ho pubblicato immagini di entrambe le visite, e in certi casi il confronto è quasi straniante: manca un arco narrativo coerente, come se ci trovassimo di fronte a due versioni diverse dello stesso luogo. La distanza tra i due reportage è dovuta sia a una maggiore consapevolezza tecnica da parte mia, nel 2023 avevo affrontato lo scatto con troppa fretta, in modalità mordi e fuggi, senza prendermi il tempo necessario per osservare davvero, sia a un’evoluzione compositiva: l’allestimento attuale, più ricco e ragionato, rende le inquadrature molto più forti. Anche se, lo ammetto, una parte di me teme che all’epoca fossi semplicemente molto meno preparato… o forse solo con l’ansia addosso.







POSTED ON 28 Apr 2025 IN
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La Villa dei Levrieri appare all’improvviso, nascosta tra gli alberi, con il cancello d’ingresso lasciato aperto come se di lei non importasse più nulla a nessuno. La villa si trova circondata da alberi e vegetazione che ormai l’hanno quasi inghiottita. La sua facciata bianca spicca tra il verde, ma mostra tutti i segni del tempo e dell’abbandono. Si entra da una porta finestra che permette l’accesso ad una delle stanze al primo piano. Da lì, inizia un viaggio tra ambienti silenziosi e corridoi che raccontano una storia che non si riesce a comprendere.
All’interno la villa è ancora in buone condizioni strutturali. Le stanze sono ampie e luminose, più di quanto ci si aspetti in un luogo abbandonato. La luce naturale filtra senza ostacoli, riempiendo gli ambienti e rivelando i dettagli rimasti. Si incontrano oggetti sparsi qua e là: una strana bilancia di metallo, un organo polveroso ma quasi intatto, una cucina ancora riconoscibile nella disposizione e nei materiali. In alcune stanze ci sono tende sfilacciate, una poltrona rovinata, piccoli mobili dimenticati. Purtroppo, come spesso accade, la stupidità umana non ha limiti. Lo si capisce osservando le scritte lasciate da alcuni writers non troppo ispirati: frasi senza senso, firme sgraziate, simboli buttati lì con la grazia di un elefante su pattini. Roba che neanche in prima media, dopo due ore di matematica e una merenda andata male. Qualcuno ha pensato che scrivere upstairs is safe con lo spray sulle pareti della scala fosse una forma d’arte. Non sono ovunque, ma bastano per lasciare l’amaro in bocca.
Il punto più interessante dell’edificio è senza dubbio lo scalone centrale. È da lì che la villa prende il soprannome con cui è conosciuta. La ringhiera in ferro battuto è decorata con figure di levrieri stilizzati, snelli ed eleganti, che si ripetono a intervalli regolari. Alle estremità dello scalone un tempo c’erano delle teste di levriero scolpite, ma oggi non ne resta traccia: probabilmente sono state rimosse o rubate. Lo scalone, in marmo rosso e con un splendido corrimano di velluto, è ancora solido, e lo si può salire senza pericolo. È uno degli elementi più particolari che abbia mai visto in una villa abbandonata.
Al piano superiore ci sono varie stanze, alcune molto grandi. La stanza da letto padronale spicca per la presenza di affreschi, sia sul soffitto che su una parete. Curiosamente, sembrano appartenere a epoche diverse: il soffitto ha un’aria più antica, mentre il dipinto sulla parete, sebbene scenografico, è più recente e realizzato con una tecnica pittorica meno raffinata. La cosa che colpisce di più, però, è che il letto matrimoniale è ancora lì, intatto, con il copriletto al suo posto. È raro trovare elementi così personali in situazioni del genere: una bella sorpresa. Nelle altre stanze ci sono armadi cabina laccati in bianco e oro, in ottimo stato, che danno un’idea del gusto e del livello di comfort che doveva esserci. In una di queste si trova anche un altro camino, che riprende lo stile elegante e decorativo visto al piano inferiore. Non ci sono quadri, né libri, né foto. Nessuna traccia diretta delle persone che hanno vissuto qui. Solo la struttura della casa e pochi oggetti dimenticati.
Fuori, il giardino è invaso dalla vegetazione. La piscina è ormai una vasca vuota, piena di detriti, canna da bambù ed erbacce. Le statue che un tempo decoravano il parco sono sparite o distrutte. Resta poco, ma quel poco basta a far immaginare quanto doveva essere elegante ed eccentrico questo posto in passato. Non siamo riusciti a trovare informazioni certe sui proprietari della villa. Non c’è alcuna documentazione, nessun riferimento preciso. I dettagli architettonici fanno pensare a una famiglia molto benestante, forse con gusti un po’ bizzarri. Gente da levrieri, non da barboncini insomma. Ma il motivo dell’abbandono resta un mistero.
Abbiamo lasciato la villa con quella sensazione che spesso accompagna questo tipo di esplorazioni: il contrasto tra la bellezza di ciò che resta e la tristezza per ciò che è andato perso. La Villa dei Levrieri oggi è solo un guscio vuoto, ma conserva abbastanza elementi da raccontare un passato interessante, anche se frammentario. E forse è proprio questo il suo fascino.







POSTED ON 27 Apr 2025 IN
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Raccontare e descrivere Villa dei Ventagli non è affatto semplice, perché si tratta di un’esperienza unica, come direbbe Battisti, un tuffo dove l’acqua è più blu, un viaggio che ti porta in un luogo anche più affascinante del solito. Non voglio soffermarmi troppo sulle circostanze del perché, voglio partire subito con la storia. Sono arrivato al mattino presto, il tempo a mia disposizione era pochissimo. Alle 6.30 ero davanti al cancello, e alle 8 avrei dovuto essere già fuori. Il tempo è tiranno, la sicurezza una priorità: il luogo è controllato e molto in vista, l’esplorazione deve essere discreta, quasi invisibile. Il giardino è completamente incolto, e già da fuori si capisce che la casa è in stato di abbandono almeno apparente. L’ingresso non è semplice, si scavalca un cancello alto, ma con velocità di esecuzione e un po’ di coraggio, in pochi secondi, sono all’interno.
Una volta dentro, mi dirigo subito
verso la stanza principale, la sala padronale, e il suo fascino mi rapisce. È proprio
come l’avevo immaginata, come l’avevo vista nelle foto. Fuori è ancora buio, l’alba si sta facendo strada, e mi rendo conto che la luce cambierà rapidamente, diventando più intensa di almeno due stop. Scatto alcune foto di sicurezza per non perdere nulla, e salgo le scale. Arrivato al secondo piano, mi accorgo subito che la luce è più forte. Il sole è uscito, e la stanza appare con una chiarezza che mi permette di notare ogni dettaglio. La prima cosa che cattura la mia attenzione è
uno studio, un po’ disordinato: sul tavolo c’è un
catalogo di figurine Liebig. Si tratta di una raccolta storica, pubblicata ininterrottamente dal 1872 al 1975: non ne avevo mai viste così tante insieme, una meraviglia. E poi quella scimmia, non ho parole per descriverla.
Le stanza da letto è altrettanto affascinante, forse anche di più, e il volto di un felino su un tappeto mi osserva dalla balaustra delle scale. Ridiscendo, fermandomi a fotografare una mensola con un coniglio che sembra quasi reale. Arrivo all’ingresso, dove la porta principale è sprangata. Fotografo i quadri con i ventagli appesi alle pareti: ventagli d’epoca, molto probabilmente, con solo il pavese dentro una cornice. Una statua in legno, di provenienza esotica, mi osserva con un ghigno di disprezzo, scatto una foto alla veranda, i cui colori sono caldi, dolci e intensi grazie alla luce dell’alba che sta ormai filtrando dalle vetrate. C’è anche un bagno curioso, con un lavandino verde e uno stanzino con il telefono, dove probabilmente la padrona di casa, alla fine del secolo scorso, trascorreva molto tempo attaccata alla cornetta.
Il cuore pulsante della villa, però, è senza dubbio la sala. Addirittura cinque grandi finestre illuminano la stanza, e ovunque ci sono ventagli: appesi alle pareti, in vetrina, sopra un tavolo, attorno al caminetto, sulle sedie; al centro della stanza un mobiletto con le ruote, pieno di alcolici, attira la mia attenzione (non potrebbe essere altrimenti). Mi concentro e scatto quante più foto possibili, anche troppe, cercando di catturare ogni particolare e ogni ventaglio. Il tempo scorre veloce, il limite orario si avvicina, devo andare. Non sono del tutto soddisfatto delle foto, ma mi accontento della luce che sono riuscito a sfruttare e dei colori che ho catturato. Ho fretta.
Prima di uscire, noto una tartaruga sotto una sedia, apparentemente a riposo, ma con uno sguardo di sfida, sfrontato, fastidioso. Sposto leggermente la sedia, la fotografo, e poi fotografo nuovamente la stanza, un’ultima volta. Finalmente, lascio la villa, esco dall’algoritmo. Sono fuori in giardino, non c’è nessuno. Scavalco nuovamente il cancello e, mentre mi allontano, vedo un signore che mi saluta gentilmente. Ricambio il saluto, buongiorno, e salgo in macchina. E’ stata un’esplorazione breve, ma intensa, emozionante e affascinante. La villa racconta la storia di una persona, una collezionista, che per la sua passione avrebbe fatto qualsiasi cosa: figurine, ventagli, bamboline strane, oggetti di ogni tipo. Una persona che amava raccogliere e custodire, che amava il bello. Mi allontano, sperando che questa villa, come tante altre, non finisca nell’oblio dei famigerati urbexer e nelle mani di chi, purtroppo, cercherà di rubare e distruggere. Ad Maiora.







