POSTED ON 8 Ott 2017 IN
NeverSleep
Per chi si avvicina al mondo della fotografia (e con l’avvento del digitale sono tanti) uno dei problemi maggiori è capire come funziona l’esposimetro della macchina.foto. L’esposimetro comunica alla fotocamera la quantità di luce presente (riflessa) e permette di definire la coppia diaframma/tempo più adeguata. Sembra semplice ma in realtà ogni scena fotografica ha caratteristiche di luce uniche, molto difficili da registrare. Non voglio addentrarmi in definizioni complesse ma semplicemente elencare i sistemi più diffusi di misurazione; vengono definite “lettura” (della luce) e sono quattro: valutativa, parziale, spot e media pesata al centro. In realtà ne esistono altri (non è proprio vero, sono leggere modifiche) e ogni casa costruttrice definisce la lettura con termini diversi, io parlo della mia esperienza con Canon: il discorso comunque è generale e si può adattare a tutte le macchine fotografiche. Ecco nel dettaglio come funzionano e in quali circostanza vanno utilizzati.
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VALUTATIVA: E’ impostato di default e possiamo tranquillamente dire che si adatta al 90% dei casi. L’esposimetro divide l’inquadratura in settori e valuta grazie ad un algoritmo (che non conosco) quale diaframma/tempo utilizzare. Il grosso vantaggio è che l’esposizione viene calcolata sul punto di messa a fuoco e quindi non è necessario bloccare l’esposizione se si ricompone l’immagine. |
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PARZIALE: E’ molto efficace quando lo sfondo è molto più luminoso del soggetto. E’ usata classicamente per il controluce. La lettura viene effettuata al centro in un’area corrispondente al 13,5% di quella coperta dal mirino. |
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SPOT: Molto simile alla “parziale” ma ancora più precisa. Viene utilizzata quando s’intende leggere un’area molto piccola e valutare la luce solo in quel punto. Copre il 3,8% del mirino. |
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MEDIA: La lettura della luce viene effettuata su tutto il mirino dando prevalenza all’area centrale. E’ stata usata per 40 anni sulle reflex professionali, oggi invece si utilizza pochissimo e si tende a preferire la valutativa alla quale somiglia tantissimo: la differenza è che nella media si valuta il centro del fotogramma e non il punto di messa a fuoco. |
Nelle tre foto sopra ho usato tre metodi diversi. Media pesata al centro per la foto della Madonna del Pino dato che volevo dare prevalenza alla zona centrale del fotogramma e le condizioni di luce erano davvero particolari e di difficile gestione, spot nella foto di strada in quanto la modella si trovava perfettamente al centro dell’immagine ed era in forte controluce e valutativa nella foto di Isy perché si adatta a qualsiasi tipo di luce ed uso praticamente sempre quella. :)
L’esposimetro che troviamo sulle moderne reflex/compatte digitali è a “luce riflessa”: misura la luce che viene riflessa dal soggetto attraverso l’obbiettivo (TTL Through The Lens). Non sempre è preciso in quanto viene influenzato dalle proprietà del soggetto misurato: l’esempio tradizionale è quello della neve che essendo bianca riflette la luce anzichè assorbirla. In questo caso la macchina tenderà a sottoesporre trasformando il manto nevoso da bianco a grigiastro. Nel caso bisognerà sovraesporre manualmente di 1-2 stop. Il nostro esposimetro suppone che gli oggetti riflettano circa il 18% della luce che ricevono (un muro bianco riflette sino al 90%) e calcola i dati in base a questo dato di partenza. Per riuscire ad ottimizzare le nostre impostazioni dovremo quindi puntare l’obbiettivo su una superficie neutra: un muro grigio, un tronco di albero, un prato oppure il famoso cartoncino grigiomedio 18%, a quel punto, avendo una valutazione corretta, dovremo ricomporre l’immagine (se la macchina lo consente possiamo utilizzare il blocco dell’esposizione) e scattare la nostra foto. Mi sto spingendo troppo sul difficile, comincio anche io a non capire quello che scrivo. Un ultimo consiglio: non lesinate sugli scatti, se non siete sicuri cambiate le impostazioni e fotografate nuovamente. E’ un ottimo sistema per capire come la nostra attrezzatura reagisce alla diverse condizioni di luce.
Da sinistra: valutativa, media pesata al centro e spot.
POSTED ON 19 Feb 2017 IN
NeverSleep
In questo ultimo periodo mi capita di vedere tantissime foto con colori fortissimi, ipersaturate, contrastate al massimo e piene di aberrazioni cromatiche. Questo perché è un momento di crescita della fotografia, ci sono troppi/tanti fotografi alle prime armi che si credono fenomeni e molto di loro si trovano nella fossa HDR, un termine che utilizzo sempre più di frequente da qualche tempo e che rappresenta in modo esemplare la situazione. Cosa succede? Quando si inizia a fotografare, ad un certo punto del proprio percorso di crescita, si crede di aver raggiunto un ottimo livello: magari per i complimenti degli amici, della mamma, per qualche riconoscimento di basso rango (probabilmente fortunato). E quindi si inizia ad esagerare, ad uscire un po’ fuori dai binari che sarebbe necessario percorrere per migliorare davvero. In realtà non si è ancora diventati bravi, semplicemente si è leggermente migliorata la propria tecnica. E si entra, fisiologicamente, in quella che viene definita fossa HDR. Chi si trova nella fossa è convinto di essere molto bravo, pubblica foto esasperate per toni, colori, saturazione, chiarezza sempre al massimo, vividezza cone se non ci fosse un domani e, come naturale conseguenza, artefatti a raffica. Magari qualche doppia esposizione, qualche High Dynamic Range. E inizia a ricevere apprezzamenti e like da chi capisce poco/nulla di fotografia, mentre coloro che ne capiscono scuotono la testa, non dicono niente, e pensano: “Ecco la fossa HDR“. E’ un brutto momento, ci siamo passati un po’ tutti, sottoscritto compreso e si vede dalla foto in alto a destra (è una fusione di 12 scatti, all’epoca pensavo fosse bellissima). A chi si trova in questa situazione non bisogna dire nulla, perché chi è nella fossa HDR non sa di esserlo ed è convinto che l’ipersaturazione, i colori che spaccano, il super contrasto, la foto che provoca sangue negli occhi a chi la osserva, sia la soluzione migliore. E’ il momento peggiore invece, il più basso (come si evince dal grafico): si ha una mediocre conoscenza del mezzo, pessima/nulla conoscenza della storia della fotografia e un inizio di capacità di post-produzione (e si vuole mostrarlo al mondo). E’ un grave errore, una situazione complicata: alcuni sono riusciti ad uscire dal tunnel, altri sono stati meno fortunati e continuano senza sosta a pubblicare foto allucinanti con la convinzione che siano capolavori. Purtroppo sono semplicemente esasperazioni senza né capo né coda. Ma nessuno osa dirglielo. Se vi capita un amico in questa situazione non esitate: copiate ed incollate questo post sotto la sua foto. Un giorno vi ringrazierà. :)
POSTED ON 12 Feb 2017 IN
NeverSleep
Mi capita sempre più spesso di leggere che l’attrezzatura non conta. In un certo senso è anche vero, diciamo che un grande fotografo può riuscire a trovare una foto interessante anche con una fotocamera base (la compattina), ma a quel punto non si tratta di un grande fotografo ma di un grande osservatore (la musica non cambia). Il problema è che ci sono dei limiti che con la fantasia non puoi valicare e questi limiti sono quasi sempre dovuti alla combinazione macchina+obbiettivo (anche spazio e tempo). Il caso di queste due foto ritengo sia emblematico: la profondità di campo è limitata, molto limitata, e questo effetto (che trovo bellissimo in un certo tipo di ritratti) è impossibile da ottenere senza una grande apertura di diaframma; potrei citare una serie di esempi importanti in cui l’attrezzatura è fondamentale (sport, foto notturne, lunghe esposizioni), ma alla fine credo che il concetto che l’attrezzatura non conta sia un falso storico e che questo sia sotto gli occhi di tutti, soprattutto sotto gli occhi di chi lo afferma; è solo una difesa per non sminuire il lavoro dell’artista. Giusto, per carità, se non conosci la tua macchina fotografica e le caratteristiche del tuo obbiettivo diventa difficile, anzi, impossibile, trovare un’immagine di qualità. Ma alla fine dei conti credo sia possibile affermare, senza paura di smentita, che l’attrezzatura è fondamentale, ma non può sostituire le capacità del fotografo. Semplice, no?
L’attrezzatura conta, ma non bisogna dirlo ché si fa del male! (Paolo Viglione)
POSTED ON 29 Gen 2017 IN
NeverSleep
Io fotografo a colori. Perché ritengo che il colore abbia un fascino nettamente superiore e sia più reale, più vero. Il biancoenero è un artificio, una sorta di filtro che si applica alle foto. Forse il miglior filtro che possiamo applicare ad una fotografia. E sono un po’ paraculo quando lo applico, perché so che quella immagine, anche se l’ho pensata a colori, può trovare maggiore apprezzamento da parte chi osserva se trasformata in bianconero. E quindi applico il filtro. Perché io guardo ed osservo a colori, e quando scatto immagino un mondo colorato nella mia foto. Non ci può limitare a scattare una foto a colori e poi convertirla, perché è una cosa diversa. La foto va pensata, ragionata e calibrata in biancoenero, prima dello scatto. E quando si preme il pulsante bisogna essere sicuri e certi che quella foto sarà in biancoenero. Perché se noi proviamo a trasformarla dopo, quindi pensiamo a colori e poi proviamo a trasformarla in post-produzione, non avremo mai lo stesso risultato. E’ vero che il sensore della macchina fotografica scrive il file con tutte le informazioni cromatiche, ma è quando pensiamo di scattare che la nostra visione deve cambiare ed è in quel momento che scegliamo come deve essere la foto. Se la alteriamo dopo sarà comunque una foto convertita, non sarà mai una foto in biancoenero. Perché se noi pensiamo a colori e stampiamo in bianconero, abbiamo una visione trasformata, è un filtro: ed è una cosa molto diversa.
Quando sono nato, la televisione, il cinema e la fotografia erano in bianco e nero e i miei maestri – Cartier-Bresson, William Klein, Jim Smith, Willy Ronis – erano tutti fotografi di bianco e nero. Io mi sono formato alle loro scuole, quindi istintivamente sono diventato un fotografo in bianco e nero. All’atto pratico, poi, trovo che per il mio tipo di fotografia il bianco e nero sia più efficace, più grafico, più forte. Inoltre, penso che il colore disturbi perché il fotografo, quando scatta, è attratto dai colori, che lo distraggono. Se in una foto c’è una macchia di colore, il viso del protagonista passa in secondo piano, mentre con il bianco e nero il rosso diventa nero e il viso risalta. Ed è questo che mi interessa. (Gianni Berengo Gardin)
POSTED ON 22 Gen 2017 IN
NeverSleep
La tecnica della desaturazione parziale – chiamata anche cut-out o colore selettivo – consiste nel lasciare alcuni dettagli di una foto a colori, convertendo il resto della fotografia in bianco e nero. Si ottiene così una foto desaturata, in cui un solo colore (o anche di più, a seconda del dettaglio) mantiene il suo pigmento.
Io odio la desaturazione parziale. E nel mio portfolio ho almeno un paio di foto (le vedete in alto) postprodotte con questa tecnica. Sono due foto del quale mi vergogno molto, per il quale ho chiesto scusa e che mi hanno costretto a passare molto tempo in ginocchio sui ceci. Ho imparato con lo studio e l’esperienza che un bravo fotografo riesce a far risaltare un soggetto con la composizione, con lo sfuocato, con la tecnica. Le desaturazioni selettive sono fatte quasi sempre da amatori alle prime armi, servono a dare l’illusione (effimera) di uno scatto artistico, di uno scatto particolare, quando poi in realtà di artistico in quello scatto non c’è proprio nulla. E’ un inutile orpello per tentare di salvare una foto che altrimenti non avrebbe niente da dire: se sei costretto a desaturare parzialmente (con un programma di fotoritocco) per evidenziare qualcosa è chiaro che da qualche parte hai sbagliato, e forse non è il caso di dirlo al mondo. Prova a cercare una foto di un grande artista (del passato o anche attuale) che abbia desaturato parzialmente una propria foto. Ti risparmio un po’ di tempo: non ne troverai.
POSTED ON 15 Gen 2017 IN
NeverSleep
Nell’ultimo periodo il mio modo di intendere la fotografia è decisamente cambiato. Rivoluzione è una parola che si adatta bene a questa fase. Sono passato da quello che adesso definisco pitturare con la luce, a raccontare. Sono stato fulminato sulla via di Damasco dalle parole di Gianni Berengo Gardin: “il vero DNA della fotografia è la documentazione“. In rete mi capita di vedere di continuo bellissime foto di paesaggi incredibili, autentiche esplosioni di luci e di colori: tramonti, albe, cieli azzurrissimi e nuvole cariche di emozioni. E nonostante la quantità industriale di like e commenti positivi non mi entusiasmano: perché sono dipinti costruiti ad arte per imitare quello che i pittori disegnavano nei secoli scorsi. E’ cambiato il mezzo per dipingere, forse è diventato più semplice, ma il risultato non è cambiato molto. Descrivere e raccontare il mondo di oggi, il reportage, la documentazione: questa è il vero scopo della fotografia. Se voglio dipingere prendo un pennello, i colori, una tela e lascio correre la fantasia. E mi immagino il tramonto più bello di sempre sul Monviso, e disegno i riflessi di Rocca La Meja sull’omonimo lago; che se devo costruirlo con Photoshop, i tempi lunghi e con i filtri non cambia molto. Io non sono contrario al fotoritocco, la fotografia è arte, è la personale visione del fotografo tra realtà e fantasia; e al risultato finale, se non trascende la tangibilità del momento, si può arrivare con ogni mezzo. Perchè nemmeno il file raw grezzo è la realtà, ma è una realtà mediata dal fotografo, dal sensore e dall’obbiettivo. Chi vuole diventare pittore/artista con il sensore della propria macchina fotografica e con il fotoritocco è liberissimo di farlo: per un minuto, un giorno, per una vita intera, e certamente lo farò anche io, perché no? La parola fotografia però deriva dal greco e significa scrivere con luce, non dipingere con la luce (fotocromia). Credo che oggi più che mai la vera identità della fotografia sia il reportage: l’impronta dell’uomo sul pianeta. Ed è quello che lasceremo ai posteri, perchè di panorami mozzafiato finti ne abbiamo già per i prossimi 4000 anni, ma la storia come la cattura la nostra macchina fotografica non la può raccontare nessuno. E nessuno riuscirà a togliermelo dalla testa.
“Io non sono un artista. Non ci tengo assolutamente a passare per artista. Oggi i giovani fanno le cosiddette fotografia d’arte che a me non interessano perché copiano quello che hanno fatto i pittori con 50-100 anni di ritardo. A me interessa la foto di documentazione perché il vero DNA della fotografia è la documentazione. (Gianni Berengo Gardin)”