E’ appena terminato il workshop di fotografia Macro (e naturalistica) con Alberto Ghizzi Panizza. Decisamente molto interessante: vedere e capire come si realizzano certe immagini sul campo è un’esperienza fondamentale per qualsiasi aspirante fotografo. Soprattutto se il maestro ha capacità e conoscenze di un certo livello come Alberto. La fotografia macro probabilmente non è nelle mie corde: troppa pazienza, troppa meticolosità. Ero convinto che fosse sufficiente utilizzare un obbiettivo adatto (1:1) ed inseguire farfalle, lucertole e lumache (?) in mezzo alla natura; purtroppo non è così. E’ necessario aspettare, costruire, conoscere e magari alzarsi all’alba (ma perché sempre all’alba??). Certo, è anche possibile limitarsi ad inseguire e sperare nel colpo di fortuna: è il caso di questa foto. La farfalla era lì, tranquilla e ferma ad attendere il tramonto. L’abbiamo anche spostata da un filo d’erba ad un fiore (senza sfiorarla) per rendere l’immagine più intrigante. Poi con l’aiuto di Alberto sono riuscito a fotografarla completamente a fuoco, in manuale. Pensavo ci fosse più post-produzione, chissà quali ottiche e tecniche fotografiche. Invece è solo questione di conoscenze, capacità tecniche, fantasia, passione e anche attrezzatura. Forse dopo il workshop di oggi ho qualche conoscenza e una minima percentuale di passione. Mi manca tutto il resto. ;-)
Mi piace raccontare la visita alla Camargue iniziando con una storia divertente. Arriviamo inesperti e poco prima di Saintes-Maries-de-la-Mer (che si scrive sempre misteriosamente con i trattini) avvistiamo un bellissimo esemplare di fenicottero rosa; entusiasmo alle stelle, giubilo, accostiamo la macchina sul bordo strada rischiando lo specchietto retrovisore e cerchiamo di fotografarlo: proviamo per un tempo lunghissimo, ma è molto complicato, tende ad allontanarsi e lo sfondo non è il massimo. Pensando a cosa avremmo visto da lì a poco fa sorridere, perché dopo qualche centinaio di metri saremmo stati letteralmente circondati dai fenicotteri.
Le Parc ornithologique de Pont de Gau est le site idéal pour découvrir, observer et photographier de nombreuses espèces d’oiseaux, dont des centaines de flamants roses, dans leur milieu naturel. Étang, marais, pelouses, roubines, roselières et sansouïres forment ce vaste espace de 60 hectares entièrement consacré à la découverte de la nature et des oiseaux de Camargue. C’est par les sentiers du parc, où seul le chant des oiseaux vient interrompre le silence des lieux, que vous pourrez observer, d’encore plus près, des oiseaux qui semblent totalement vous ignorer.
Entrare nel Parco Ornithologique du Pont De Gau è un’esperienza sublime: per la bellezza e per l’enorme quantità di fenicotteri rosa che si possono ammirare da vicino, anzi, da vicinissimo. In realtà si possono osservare numerose specie di uccelli, ma il fenicottero è l’emblema del parco e, soprattutto, il motivo della nostra visita. Purtroppo non ero attrezzato come avrei dovuto, per riuscire a cogliere qualcosa di ravvicinato è necessario almeno un medio-tele (minimo 200mm); mi sono dovuto accontentare del panorama, ma è stato un bell’accontentarsi. Il biglietto del parco copre l’intera giornata e sono riuscito a scattare al mattino (purtroppo non apre prestissimo) per poi provare nuovamente al tramonto (le ultime due foto). Mi piacerebbe in futuro tornare, chissà, per provare a catturare meglio l’essenza del parco. È una piccola promessa che faccio a me stesso.
Benjamin, detto Benji, è un cane di San Bernardo. Non ha la fiaschetta di grappa (almeno non in quel momento) ed è l’animale più docile del mondo. E’ un molosso di quasi 90 chili. Impressionante. E mentre lo fotografavo con il 24mm (quindi a meno di un metro di distanza) è rimasto impassibile e calmo, come se il fotografo nemmeno esistesse. Per questo ritratto ho utilizzato un fotoritocco leggero: una schiarita ai toni della pelle e il timbro clone per eliminare occhiaie e rughe.
Dal 21 ottobre scorso sono diventato proprietario di Shiva, una piccola femmina di Chow Chow. Non ero intenzionato ad adottare (non nel breve periodo almeno) un cane ma, non so come e non so perché, è capitato. Pagando anche una discreta sommetta. E dopo 20 giorni di convivenza con questo piccolo animale peloso (molto peloso) posso dirmi molto contento della scelta fatta. Il Chow Chow è un cane molto particolare: è tranquillo, silenzioso, abbaia molto raramente e solo in caso di necessità, mangia qualsiasi cosa, resiste molto bene al freddo inverno piemontese. E’ affettuoso (ma non in modo eccessivo) con il padrone ma molto restio a concedersi alle amicizie occasionali. Un cane perfetto insomma. Dopo qualche giorno di studio è diventata (è una femmina) molto vivace e rallegra le nostre giornate; certo costa un po’ di fatica riuscire a stargli dietro, ma in alcuni atteggiamenti è davvero divertente e il suo affetto incondizionato ricompensa le nostre fatiche.
Mi piace fotografare gli animali. E’ difficile, sia chiaro, ci vuole tempo, pazienza e voglia di aspettare lo scatto giusto. Immaginate un prato verde e tre splendidi cuccioli di gatto impauriti: lontani per la prima volta dalla loro mamma e dal granaio, la loro prima casa. E immaginate un cane curioso che si diverte a giocare con loro, a stuzzicarli e a scappare impaurito quando i tre cuccioli rizzano il pelo e si posizionano per l’attacco. Divertente. E poi c’è il fotografo: sdraiato a filo d’erba, dito pronto sul pulsante di scatto, senza macchia e senza paura. In attesa. In attesa che i gattini escano dal guscio e provino ad avventurarsi nel mondo circostante. In fondo non è così male, le reazioni dei cuccioli sono curiose, si nascondono, si guardano in giro, sono esploratori. Dopo un’ora di giochi e di scatti è tempo di tornare dalla mamma, di tornare a casa. In attesa di trovare un nuovo padrone che gli voglia davvero bene.
Sono tornato. Dalla Svizzera; la febbre di inizio vacanza mi ha debilitato ma grazie al cioccolato mi sono ripreso agevolmente ed in tempi rapidi. E voglio subito parlare di un qualcosa che ho visto in Svizzera e che molto mi ha fatto riflettere: gli Orsi di Berna. Per chi non lo sapesse l’orso è il simbolo della capitale Elvetica dal 1191 anno della sua fondazione; il nome della città deriva proprio da ‘baar’ che significa, appunto, orso, in onore dell’animale che Berthold V di Zaahringen uccise proprio sulla sponda del fiume Aare. Al centro della città, poco oltre il ponte Nydeggbrucke, si trova una grossa fossa, chiamata Baarengraben (fossa degli orsi) a forma di cerchio. In questa fossa vivono due orsi: Pedro e Tana. E’ molto divertente giocare con loro, lanciare cibo, fotografarli e riprenderli mentre si divertono a scherzare con i turisti. In Italia una situazione del genere provocherebbe manifestazioni degli animalisti tutti i giorni. Non è tanto la cattività a rendere triste la situazione ma bensì la posizione degli orsi che guardano tutti dal basso verso l’altro, peggio della peggiore attrazione turistica. Dalla modernissima Svizzera non mi aspettavo certo una prigione simile.