So benissimo che aprendo quella porta entrerò in una stanza magica. Perché ho visto qualche foto, poche a dire il vero, e mi hanno raccontato. La porta è socchiusa quindi da fuori capisco che sto per entrare nella famosa stanza; in realtà è più dura del previsto, riesco ad aprirla, con fatica, e sono dentro. Non è come mi aspettavo, è semplicemente dieci volte di più. L’ambiente intorno non è certo quello di altre esplorazione stellate, ma fra queste quattro pareti si respira la meraviglia. Tutto sembra immobile, nessuno ha osato modificare l’immagine: il divano ad angolo, leggermente spostato, il televisore, la lucidatrice e la radio Regler, che ci portano dentro un mondo incredibilmente vintage, le poltrone e un soffitto da lasciare senza parole. Tutto perfetto e preciso.
L’unica stanza interessante è quella mi avevano detto. In realtà tutta la casa è bellissima: soffitti decorati, lo studio, la camera da letto, l’ingresso, i fantastici pavimenti tipici del secolo scorso. Se però devo essere sincero è il bagno ad avermi impressionato maggiormente: oggi ci limitiamo al bianco (e poco altro), ma nella seconda meta del ‘900 era normale, di moda, che i sanitari fossero colorati con tonalità improponibili: visone, rosa sussurrato, castoro (incredibile), champagne, il kashmir, il whisky, il daino, ma anche azzurro sussurrato, cactus, noce, grigio mondrian, blu cobalto. Qui avevano optato per un turchese davvero molto particolare circondato da piastrelle verdi chiaro: oggi sarebbe un insulto all’estetica e al pragmatismo. Ma devo ammettere che questa riscoperta del gusto di una volta è parte integrante del fascino urbex.