La Black Beach è una delle perle dell’Islanda: è meravigliosa, selvaggia, incantevole. Il nero lavico della sabbia sorprende e contrasta con l’azzurro/verde del mare, il tutto in un paesaggio a perdita d’occhio immerso nel volo degli uccelli e sferzato dal vento. Il suo vero nome è Reynisfjara Beach e il suo scenario, dominato dai due maestosi faraglioni che emergono dal mare, chiamati Reynisdranga, è mozzafiato.
Un luogo magico, avvolto da antiche e fiabesche leggende, tra qui la più popolare che racconta l’origine dei faraglioni. Si tratterebbe di due enormi troll trasformati in pietra dal Sole perché sorpresi a rubare una nave.
Dietro alla spiaggia emergono le colonne di basalto, sul quale si fermano centinaia di pulcinelle di mare, l’atmosfera è surreale, ma il pericolo dietro l’angolo: perché questa spiaggia è anche maledetta. Qui infatti si verifica il fenomeno della sneaker waves, onde anomale che si formano quando diverse onde più piccole combinano la loro energia per creare un’onda più grande. Queste onde sono incredibilmente potenti e possono rapidamente spazzare via una persona in mare: negli ultimi 7 anni sono morte 5 persone trascinate in acqua e gli incidenti sono all’ordine del giorno.
Sono rimasto sulla Black Beach un paio d’ore, incantato ad ammirare lo scenario che si mostrava ai miei occhi. Ho già usato gli aggettivi che meglio la descrivono, ma voglio ripeterli: incantevole, mozzafiato, selvaggia.
Arnardrangur è il nome -difficile- di questo enorme sasso che si trova all’estremità della Black Beach, la spiaggia resa celebre dal colore nero (dovuto ovviamente all’attività vulcanica dell’isola) della sua finissima sabbia. Appena l’ho notato ho capito che sarebbe stato il soggetto di una quantità importante di foto: purtroppo scendere sulla battigia era impossibile e quindi mi sono dovuto accontentare di qualche scatto dal promontorio di Dyrhólaey. Ho chiuso decisamente il diaframma (entrambe le foto sono a f/11) e scattato con grandangolo, pola e treppiede (il miglior amico del fotografo). E credo che il nero della sabbia rispetti abbastanza fedelmente la realtà.
Uno degli obbiettivi del mio viaggio in Islanda era osservare (e fotografare) le pulcinella di mare, nome in codice Puffin (nome scientifico Fratercula Arctica, che significa Fraticello Artico, e si riferisce al suo piumaggio bianco e nero che ricorda le vesti di un frate); nella stagione estiva questa particolare e buffa specie di uccelli è solita vivere e nidificare sulle coste dell’Islanda e in special modo nella zona di Dyrhólaey. Purtroppo in viaggio mi sono accorto dei limiti naturalistici della mia attrezzatura: la EOS R è una macchina straordinaria per ritratti, panorami e interni, ma quando si tratta di inseguire soggetti volanti (e veloci) risulta estremamente lenta. Anche il 70-200, pur essendo una lente favolosa, quando si tratta di fotografia naturalistica è decisamente corta: anche se in Islanda le pulcinella di mare sono abbastanza vicine e avvicinabili la focale 200mm è davvero limitata per questo tipo di soggetti. Nel caso servirebbe almeno, e dico almeno, un 400mm. Qualcosa di statico comunque sono riuscito a fotografare, anche grazie all’aiuto dell’altissima risoluzione della mia macchina fotografica e all’efficace arma del Crop. Sono tre immagini scattate ad una distanza di circa 8-10 metri.
Si è formato solo 6500 anni fa, ma Kerið è uno dei crateri più spettacolari di tutta l’Islanda. Con i suoi 55 metri di profondità, i suoi 270 metri di lunghezza e i suoi 170 metri di larghezza, è caratterizzato da un’insolita forma ovale.
Una delle principali caratteristiche della geografia islandese è l’incessante attività vulcanica e il cratere di Kerið ne è la prova. Il cratere, situato nella regione vulcanica di Tjarnarhólar, è un paesaggio vulcanico relativamente recente. Non a caso, la sua forma ovale si è conservata alla perfezione e costituisce uno dei luoghi più fotogenici del sud-ovest dell’Islanda.
Dal punto di vista paesaggistico è sicuramente qualcosa di meraviglioso: purtroppo non siamo arrivati nel giorno migliore dell’anno e l’atmosfera uggiosa, le nuvole poco interessanti e la pioggia rada, ma fastidiosa, mi ha impedito di fotografare come avrei voluto e ho dovuto un po’ inventare per trovare qualche scatto almeno decente. Ma qualcosa sono riuscito a salvare.
La zona di Geysir è uno dei pochissimi posti sulla terra dove si possono osservare da vicino i geyser attivi. Arrivando qui ho scoperto, beata ignoranza, che i geyser devono il loro nome proprio a questa località. In realtà il fenomeno geotermale è ormai quasi ridotto a zero per via di alcuni cedimenti strutturali, il geyser più conosciuto è visitato è quello di Strokkur (in foto) che regala ai propri visitatori eruzioni di oltre 30 metri di altezza e si trova a circa 400 metri da Geysir. Strokkur è un geyser capace di generare getti d’acqua e vapore a 90 gradi ogni 6/10 minuti circa: uno spettacolo a cronometro. Purtroppo è difficile comprendere la potenza del getto e il tempo di intervallo: per fotografare bisogna armarsi di tempo, pazienza e orologio. Tutta la zona è comunque interessante per via della vivida colorazione delle sue colline, grazie alle prese d’aria di vapore e alle bellissime pozze di fango sulfureo, ma ascoltare il rumore dell’esplosione da lontano è una sensazione bizzarra che non dimenticherò. L’Islanda è una terra decisamente particolare e il Geyser è senza dubbio il fenomeno naturale che la contraddistingue maggiormente.
Sebbene siano probabilmente attive da 10.000 anni o più, le sorgenti termali di Haukadalur furono notate per la prima volta dagli europei alla fine del XIII secolo, quando il campo esplose in attività geotermica dopo un terremoto. A partire dal XVIII secolo arrivarono i turisti, alla ricerca di bagni minerali, fanghi terapeutici e solo per guardare i geyser soffiare.