Gemma di Riso

POSTED ON 27 Apr 2023 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial

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Quando si visita una villa abbandonata, oppure un’abitazione privata, si capiscono e percepiscono le persone che l’hanno vissuta. Il loro stile di vita, le loro passioni, come si vestivano. È un gioco di ricerca a ritroso nel tempo, è una specie di causa/effetto per molti versi anche intrigante e affascinante. Nell’urbex industriale la partita è completamente diversa, perché sono luoghi meno intimi, il rovescio della medaglia consiste in una ricostruzione più semplice della storia: gli elementi sono pochi e generalmente più basici.

Nel caso di questa piccola azienda per la produzione di riso (non vi nascondo ovviamente che siamo nella zona del Vercellese) ho trovato però un paio di elementi decisamente destabilizzanti e fuori luogo. Perchè in mezzo agli uffici, ai magazzini per lo stoccaggio, i bagni, i macchinari e le solite immagini religiose, abbiamo trovato un motoscafo e un calciobalilla. Quest’ultimo decisamente affascinante: immaginare i dipendenti, che finito l’orario di lavoro, oppure in pausa, si sfidavano a partite di biliardino fa pensare ad un’atmosfera molto famigliare e serena.

Ma il motoscafo? Cioè, capisco le risaie allagate, ma il motoscafo? Devo ammettere che quando l’ho visto sono rimasto decisamente perplesso; mi sono immaginato l’utilizzo del motoscafo come mezzo per muoversi nelle risaie al fine controllare le piantagioni; ovviamente sto scherzando (meglio dirlo prima che qualcuno mi prenda sul serio), certo una passione per il mare e la motonautica del titolare potrebbe essere. L’unica soluzione plausibile all’indovinello. E niente, ci sto ancora pensando adesso.

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La villa del Plastico

POSTED ON 28 Feb 2022 IN Reportage     TAGS: urbex

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In realtà sarebbe meglio scrivere dove c’era il plastico. Perché in questa struttura, molto moderna e particolare, il piano superiore era interamente dedicato ad un meraviglioso ed enorme plastico di trenini elettrici. Ho deciso volutamente di non salire la scala a chiocciola che porta di sopra. In realtà anche perché è stata l’esplorazione più casuale della mia vita: mi trovavo di passaggio per motivi personali, con un abbigliamento non certo adatto alla fotografia di luoghi abbandonati. Ma l’occasione fa l’uomo fotografo e ho deciso comunque di cimentarmi nella nobile arte dell’urbex: avevo con me il treppiede leggero, la testa a sfera (che odio) e il grandangolo. Devo comunque ammettere che questa villa mi ha stupido per l’arditezza della costruzione: enormi vetrate, spazi ristretti ma probabilmente modulabili, un’idea decisamente moderna e futuristica (anche troppo) di abitazione. Ho deciso di iniziare con la prima foto che ho scattato, la camera da letto, perché mi lascia un senso di pulizia (?) e linearità incredibili. Purtroppo non ho trovato nemmeno il celebre Robot Emiglio: sarebbe stata una chicca notevole, d’altronde lo sanno tutti che Emiglio è Meglio.

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Il castello di Albano Vercellese

POSTED ON 27 Gen 2022 IN Reportage     TAGS: URBEX, castle

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Il Castello di Albano Vercellese è abbandonato da diverse decine di anni. Ha un storia antica, che inizia probabilmente nel XIV, fatta di famiglie nobili, discendenze, guerre e distruzione. Il castello attuale è stato edificato su uno più antico, di cui si scorgono ancora tratti della linea della merlatura a coda di rondine, murata durante le opere di sopraelevazione nel XV secolo. Il vecchio maniero, probabilmente una struttura di ricetto, era circondato da uno spalto e da un fossato, alcune fondamenta di case dell’epoca farebbero pensare all’esistenza di un abitato a ridosso del perimetro fortificato. Del castello restano il torrione d’ingresso a pianta quadrata con garitta cilindrica, della metà del XV secolo, e alcuni tratti delle cortine.

Il toponimo deriva forse da Albanus, nome personale romano; dell’epoca romana resta una tegola con iscrizione funeraria. Dal X secolo, sotto l’episcopato di Attone, Albano risulta tra le pievi della chiesa vercellese; il possesso al Vescovo di Vercelli fu confermato coi diplomi imperiali di Ottone III (999) e di Federico Barbarossa (1152) fino al 1179, quando una parte venne ceduta al Comune di Vercelli. Dopo esser stata proprietà di varie famiglie (Tizzoni, Avogadro, de Albano), nel 1335 Albano passò ai Visconti fino al subentrare dei Savoia (1407).
Nel 1621, per volere del duca Carlo Emanuele I, Albano (insieme ad Oldenico e Cascine San Giacomo) fu eretta contea di Mercurio Arborio di Gattinara, gran cancelliere di Carlo V d’Asburgo. Ancor oggi l’edificio del Castello appartiene alla famiglia Arborio di Gattinara.
Secondo gli storici, quando Albano si trovava sotto la dominazione del Comune di Vercelli, era circondato da uno spalto e da un fossato, lungo il quale venivano piantati cespugli spinosi; nel XIV – XV secolo venne edificato un vero e proprio castello.
Alcune notizie sullo stato del fabbricato nel 1671 e in particolare l’esistenza di case rovinate fuori dal castello verso est, potrebbero attestare l’esistenza di un abitato a ridosso del perimetro fortificato, probabilmente un ricetto, la cui esistenza, allo stato attuale delle conoscenze, non è però documentabile. Il castello fu ristrutturato nel XIX secolo, ma conserva parti antiche risalenti al XV secolo.

L’UNIone VOlontari Culturali Associati (UNI.VO.C.A.) ha cercato negli anni scorsi di opporsi al degrado in cui versa il Castello Vercellese purtroppo senza grossi risultati. Oggi il Castello, che venne ristrutturato nel scorso secolo, appartiene alla famiglia Mercurino Filiberto Arborio.

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Il palazzo del Conte (Leri Cavour)

POSTED ON 19 Apr 2019 IN Reportage     TAGS: URBEX

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Leri Cavour è una frazione di Trino, in provincia di Vercelli, un tempo possedimento di 900 ettari della famiglia Benso di cui fu conte Camillo Benso. Tra la moltitudine di paesi fantasma in Italia è forse uno dei più controversi, abbandonato a se stesso, tra qualche barlume di rinascita. Per la storia vi invito a leggere Paese Abbandonato di Alberto Bracco, in cui troverete tantissime informazioni, anche sugli sviluppi recenti. Per me Leri rappresenta qualcosa di importante: sono sempre rimasto affascinato dalla storia del Risorgimento italiano e soprattutto dalla figura di Camillo Benso conte di Cavour. E pensare che in queste terre è nato il pensiero che avrebbe portato, oltre 150 anni fa, all’unità d’Italia mi rende triste. Qualche anno fa, in occasione dell’anniversario, si era tornato a parlare di Leri Cavour e sono anche iniziati dei lavori per rilanciare il paese, addirittura come museo del Risorgimento. Di quel barlume di speranza è rimasto davvero poco: qualche rete da cantiere e poco altro. Adesso il paese è aperto ai curiosi e ai vandali, recentemente anche la chiesa, rimasta chiusa sino a qualche anno fa, è stata violata. Un paese, una nazione, non dovrebbe mai dimenticare il suo passato: è un delitto mortale perchè impedisce di imparare dai propri errori. Nelle foto ho preferito evidenziare il palazzo del Conte, l’unica parte interessata dai restauri di qualche anno fa. Con poco potrebbe tornare a splendere, i soffitti sono ancora maestosi e carichi di storia. L’unica consolazione è sapere che i turisti di passaggio (e sono tanti) possono ancora liberamente visitarlo, e si intravede una sorta di rispetto rispetto ad altri luoghi abbandonati: forse è ancora lo spirito del Conte a vegliare su questi muri.

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Ex Ospedale Psichiatrico di Vercelli

POSTED ON 8 Gen 2018 IN Reportage     TAGS: urbex, asylum

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L’ex ospedale psichiatrico di Vercelli (che possiamo anche chiamare manicomio senza alcuna paura) venne costruito nel 1930 per la cura delle persone affette da malattie mentali ed è composto da 20 padiglioni di cui solo 1 attualmente funzionante. Le sue dimensioni sono mastodontiche, parliamo di circa 125000 metri quadri immersi nel verde: al suo interno trovano spazio anche una chiesa, posizionata centralmente, e un teatro, il Benedetto Trompeo, andato in parte a fuoco e decisamente pericolante. Con l’arrivo della legge Basaglia nel 1978 chiude (come tutti i manicomi italiani) e viene trasformato nell’azienda ospedaliera di Vercelli sino al 1991 anno della definitiva cessazione.

Questo luogo fu teatro, tra il 12 e il 13 maggio 1945, dell’episodio passato alla storia come Eccidio dell’ospedale psichiatrico di Vercelli. Le notizie sono poche e non sempre certe, ma qui vennero giustiziati sommariamente e in modo molto cruento, ad opera di alcuni partigiani della 182ª Brigata Garibaldi “Pietro Camana”, un gruppo di militi della Repubblica Sociale Italiana prelevati dallo stadio di Novara, allora adibito a campo di prigionia.

Visitare il manicomio di Vercelli è, come capita in questo tipo di strutture, molto inquietante. Si respira la sofferenza, si sente la morte, la tristezza, il dolore. Eppure fino al 1978 in questi ospedali venivano internate le persone diverse, affette da quelli che venivano definiti disturbi mentali. Ho visitato solo una parte della struttura, per riuscire a fotografarla tutta ci vorrebbero diversi giorni, ma credo comunque di essere riuscito a coglierne l’anima. L’odore di muffa e di chiuso regna sovrana in quasi tutti i padiglioni: scale su scale, porte distrutte, vetri in frantumi, fra radiografie, certificati, ricette mediche, manufatti e scritte sui muri, alcune di queste anche angoscianti.

Il padiglione più interessante è sicuramente quello che ospita la chiesa; è un edificio relativamente moderno e quindi costruito quasi sicuramente dopo la prima guerra mondiale. Le panche per i fedeli sono ammassate una sopra l’altra, la croce è caduta, c’è un organo, una macchina da scrivere: addirittura dei bicchieri e qualche testo sacro. Le finestre sono ancora intatte, come a rispettare la sacralità della chiesa. Bellissime e molto fotogeniche le scritte in latino sui muri che dominano la scena dall’alto.

In fondo al complesso, per ultima, si erge la chiesa. Anche qui un estremo disordine circonda l’altare dove resiste al caos solo il pianoforte. Anche la grossa croce è stata deposta nel tempo.

Fra le mie esplorazioni urbex (risale al novembre del 2016) devo ammettere che questa è stata la più interessante, la più straniante. Per le dimensioni della struttura, enorme, e per la quantità di materiale storico che si può trovare negli uffici amministrativi: ho visto giornali degli anni ’30, cartelle cliniche del primo dopoguerra, montagne di dossier, di ricette. Anche negativi e pellicola da ripresa. E poi ci sono le sedie a rotelle, gli armadi, gli archivi, le stanze vuote ed immense, medicinali, bottiglie, giocattoli. Quando cammini fra i padiglioni cercando di capire quali sono i più interessanti sembra di trovarsi in un mondo post-atomico fatto di macerie e distruzione. E non è una bella sensazione.

Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai.
– Alda Merini

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Delirium

POSTED ON 2 Gen 2017 IN Details     TAGS: urbex, asylum, silver, wideaperture

Delirium

Tutti gli anni, in questa data, pubblico una foto scattata fra l’inizio e la fine dell’anno. E’ una tradizione consolidata da queste parti. Ma quest’anno no. Quest’anno ho scelto, mio malgrado, una foto scattata a novembre, una foto che mi possa servire da promemoria. Un’immagine che possa ricordarmi di non commettere uno degli errori più classici e banali che un fotografo possa fare. Si, perché il 31 dicembre ho scattato diverse foto, alcune anche (credo) interessanti. Purtroppo ho dimenticato di controllare le impostazioni, almeno quelle più rare (permettetemi l’espressione): in effetti non mi capita mai di modificare la qualità delle immagini, ma venerdì scorso, per provare un servizio web, ho scattato una foto (una sola) alla risoluzione minima consentita dalla macchina fotografica: 720×480. E il giorno dopo ho premuto quasi 100 volte il pulsante di scatto senza ricordarmi di verificare la risoluzione; ho controllato tutte le altre opzioni, ma alla risoluzione non ho proprio pensato.

E questo mio personale delirio fotografico spero possa tornarmi utile in futuro, per evitare di commettere nuovamente un errore del genere.

Per il momento non voglio parlare di dove e perché ho scattato questa foto; si tratta però di uno scatto F/1.2 a 3200 ISO: praticamente al buio. E poi si augura ‘Buona Luce‘.