Il 4 febbraio è un giorno importante per la città di Catania: tutta la città si riunisce in evento che definire emozionante è forse riduttivo. L’atmosfera, sin dalle prime luci dell’alba, è in parte commossa e in parte felice, le strade della città si popolano di cittadini, devoti che indossano il tradizionale sacco: un camice votivo di tela bianca lungo fino alla caviglia e stretto in vita da un cordoncino, un berretto di velluto nero, guanti bianchi e sventolano un fazzoletto bianco; rappresenta l’abbigliamento notturno che i catanesi indossavano quando, nel lontano 1126, corsero incontro alle reliquie di Sant’Agata che Gisliberto e Goselmo riportarono da Costantinopoli. Siamo arrivati di fronte al Duomo poco dopo l’alba, la piazza era già gremita e quando è stato aperto il cancello di ferro che protegge le reliquie della santa (sono necessarie tre chiavi: una la custodisce il tesoriere, la seconda il cerimoniere, la terza il priore del capitolo) e il viso sorridente di Agata si è affacciato fuori dal duomo il tripudio dei fedeli, con il tradizionale sventolio dei fazzoletti bianchi, è aumentato in modo esponenziale accompagnato dai fuochi d’artificio. A quel punto il busto di Sant’Agata, luccicante di oro e di gemme preziose, è stato issato (non senza fatica) sul fercolo d’argento rinascimentale, foderato di velluto rosso, il colore del sangue del martirio, ma anche il colore dei re.
La processione è lenta, lunga, impegnativa. Intorno al fercolo i fedeli si accalcano per portare un cero, una donazione in denaro, oppure semplicemente per toccare la santa. Una leggenda racconta che le donne che toccano Sant’Agata possano rimanere incinta. Molti porgono il fazzoletto bianco per fare in modo che venga fatto appoggiare alle reliquie, alcuni pregano, altri si accontentando di guardare da lontano facendosi il segno delle croce. Si sentono gridare gli inni alla santa: Nun c’è ventu, nun c’è acqua, nè bufera, nè timpesta casca u munnu ma Catania a Frivaru si fa festa. La città è addobbata a festa con la A in oro su sfondo rosso, i terrazzi espongono l’insegna W S.Agata. È davvero uno di quei momenti da vivere per capire l’emozione, l’importanza che i catanesi danno alla patrona e alla sua festa, non avevo mai visto un senso di devozione nemmeno lontanamente simile. Quando si è in mezzo alla folla si cerca di fotografare con rispetto, dando importanza alle persone e al momento che stanno vivendo. Non è facile, anzi, è decisamente complicato. Ho provato a raccontare queste emozioni con 37 foto, entrando dentro la festa. È anche un ricordo di una giornata incredibile.
Quando si descrive la festa di Sant’Agata si deve obbligatoriamente parlare della tradizionale sfilata delle candelore, enormi ceri votivi rivestiti con decorazioni artigianali, puttini in legno dorato, santi e scene del martirio, fiori e bandiere. Le candelore anticipano il fercolo di Sant’Agata in processione, perché prima dell’arrivo dell’illuminazione elettrica avevano il compito di illuminare il passo ai partecipanti in notturna. Le candelore sono un numero variabile e storicamente rappresentano le arti (con alcune eccezioni): in passato erano arrivate ad essere addirittura 28, quest’anno erano 15 con la novità della Candelora dedicata a S.Agata dall’associazione Luigi Maina.
Questi imponenti ceri dal peso che oscilla fra i 400 ed i 900 chili, vengono portati a spalla, a seconda del peso, da un gruppo costituito da 4 a 12 uomini, che le fa avanzare con un’andatura caracollante molto caratteristica detta a ’nnacata. Quest’anno il giorno di Sant’Agata cadeva di lunedì e non sono riuscito ad assistere alla seconda parte dei festeggiamenti veri, con il passaggio da via Antonino Di Sangiuliano, uno dei momenti più caratteristici della sfilata per le difficoltà che incontrano i portatori lungo la ripidissima salita. Le foto sono di sabato 3 febbraio quando le candelore si presentano ai fedeli accompagnate dalla musica delle bande cittadine (ogni candelora ha il suo accompagnamento musicale). Volevo realizzare un reportage che mettesse al centro della storia i portatori e le loro espressioni: ho utilizzato quasi esclusivamente il 70/200 a f/2.8 per riuscire ad entrare dentro la scena nonostante l’enorme quantità di persone e per isolare i protagonisti della giornata dallo sfondo e dalla confusione. In totale sono 34 foto e credo riescano a rappresentare bene il giorno delle Candelore.
Questo è il Natale che fa tornare all’essenziale, che mostra quello che conta davvero, vuoi attraverso una conferma o un cambiamento, che invita a guardarci dentro e guardare fuori con fiducia e coraggio, sapendo che quello che abbiamo vissuto finora ci prepara, anche nostro malgrado o forse, soprattutto nostro malgrado, a nuovi cambiamenti.
– Sara Taricani
Devo ammettere che quest’anno non era mia intenzione tornare a fotografare il Presepe Vivente di Bagnasco, ma data la presenza di un gruppo fotografico monregalese piuttosto nutrito ho deciso di unirmi a loro per osservare, anche nel 2023, la celebre rappresentazione storica (poi in realtà siamo rimasti in 2, ma è un’altra storia)(e poi mi assale sempre il dubbio: ma nell’anno zero, in Palestina, si mangiava la Bagna Cauda?). Complice un paio di novità tecnologiche ho scelto di affiancare alla coppia R+85 anche il binomio R7+35 (che diventa 56mm su APS-C): l’ambiente del presepe di Bagnasco è molto buio e senza ottiche luminose diventa proibitivo. Esiste sempre l’alternativa del flash (meglio off-camera), ma mi sembra di diventare troppo invadente anche se, in alcune circostanze, un lampo di schiarita mi avrebbe sicuramente fatto comodo e salvato da un paio di errori di messa a fuoco millimetrici (ma scattando a 1.2 è complicato raggiungere la perfezione).
Il Mausoleo Crespi si trova in cima ad una collina, nel paese di Nè, in provincia di Genova. Arrivarci non è per niente facile: si sale e si scende in mezzo ai rovi, si striscia, si scavalca. Se quando sei quasi arrivato ti accorgi di aver lasciato il treppiede in macchina la distanza da percorrere praticamente si raddoppia: ma è tutta attività fisica e bestemmie.
Il mausoleo è diviso in 2 parti: al piano superiore troviamo una piccola e meravigliosa cappella, mentre al piano inferiore le tombe della famiglia. Purtroppo negli anni i vandali, nonostante la posizione infelice, non hanno risparmiato le vetrate, le porte, l’altare e nemmeno le bare: sono stati portati via i busti, le vesti talari e diversi suppellettili. Un vero peccato perché il Mausoleo è un piccolo gioiello architettonico e un pezzo di storia molto importante del nostro paese.
Dopo 4 anni sono tornato al presepe vivente di Bagnasco. Questa volta in assoluta solitaria, una toccata e fuga degna del miglior Johann Sebastian: sono arrivato all’ingresso poco dopo le 20 e sono riuscito a terminare il giro fotografico del presepe circa 90 minuti dopo, ma prima dell’inizio della rappresentazione (non potevo farcela). Devo ammettere che fotografare, bene, il presepe di Bagnasco è una di quelle imprese possibili solo con ottiche decisamente luminose: non esiste illuminazione (all’epoca Alessandro Volta non era ancora nato), è tutto al buio più assoluto alla luce di candele e falò. Si potrebbe utilizzare il flash on camera, ma è chiaro che il rischio di rovinare l’atmosfera sarebbe molto elevato; per risolvere l’arcano ho sempre utilizzato 3200 ISO e aperture di focale non superiore a f/2. Non è un reportage in senso stretto, è più una raccolta disordinata di ritratti e ambientazioni; non ho avuto l’ispirazione per creare una storia vera e rigorosa, anche perché l’ordine degli attori è quasi casuale (e poco attinente alla storicità dell’evento). Spero si riesca ugualmente a percepire l’essenza della volontà e della passione che gli abitanti di Bagnasco dedicano al loro meraviglioso presepe.
Il santuario della Madonna delle Vigne è un edificio religioso molto particolare: è un esempio straordinario di barocco piemontese, fu realizzato da Antonio Bertola e Giovanni Battista Scapitta alla fine del 1600. Scapitta realizzò la cupola sul modello della chiesa di Santa Caterina di Casale Monferrato. Nella piccola abside si vede ancora oggi l’altare sovrastato da una nicchia che era occupata da una statua della Madonna. È diventato tristemente celebre con la definizione di spartito del Diavolo.
Queste terribili azioni continuarono per ben 100 anni grazie all’isolamento dell’Abbazia. Quando però la voce degli atroci abusi si sparse, nel 1784, il Papa decise di mandare un esorcista da Roma affinché liberasse quei luoghi dalla presenza malefica. L’esorcista riuscì a sconfiggere il demone e a relegarlo in una delle cripte della chiesa. Poi mise degli abati mummificati a guardia del demonio, seduti in circolo su degli scranni. Il pontefice fece poi chiudere l’abbazia e sconsacrare la chiesa. Si racconta anche che venne composta una musica sacra, in grado di rafforzare il sigillo che imprigionava il demone. La musica in questione venne dipinta in un affresco presente nella sala della chiesa, rappresentate un organo con uno spartito. Questo spartito presenta però una stranezza: è bifronte. Può cioè essere suonato sia normalmente, leggendolo dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, o al contrario, dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra. La leggenda dice che se viene suonato normalmente, la musica rafforzerà il sigillo che imprigiona il demone, ma se viene suonato al contrario il demone sarà liberato.
Secondo le testimonianze la chiesa era ancora in funzione negli anni ’20 del secolo scorso e la statua della Madonna veniva portata in processione per la benedizione dei terreni e dei frutti. Nel 1926 il principe Carrega Bertolini di Lucedio morì. Nel testamento egli divise l’abbazia di Lucedio e quella di Montarolo tra i suoi due figli. Così iniziò il declino del santuario, la cui sconsacrazione sarebbe avvenuta intorno al 1967. L’edificio cadde nell’oblio. Nel 1999 l’archeologo Luigi Bavagnoli, fondatore del Gruppo Teses, si imbatté nell’edificio, vi entrò e trovò il presunto Spartito del diavolo. Il resto è storia attuale.
Il presepe vivente di Prea è una storia che si tramanda nel tempo: ormai siamo giunti alla 39esima edizione. È uno di quegli eventi che rimangono lì, una tradizione, a scandire il tempo per ricordare a tutti l’arrivo del Natale. Ero già stato qualche anno fa come semplice visitatore, sono tornato come fotografo. Ho scattato con due ottiche (grandangolo e normale), con il flash (in manuale off camera) e senza; ho fatto il giro in senso antiorario almeno tre volte, praticamente una mezza maratona fotografica. Ho salvato 38 immagini, ma ho deciso di pubblicare solo le migliori 17. Il presepe vivente di Prea è magia, è passione, cura dei dettagli, amore per il proprio paese. Ovviamente la foto copertina è dedicata alla Sacra Famiglia, non potevo scegliere diversamente. :-)
Dopo quasi 4 anni sono tornato a Villa Moglia. Mi avevano parlato di una serie di nuovi graffiti nella piccola chiesa che affianca la casa e ho deciso di osservare con i miei occhi e con il mio obbiettivo. E devo ammettere che l’impatto visivo è importante: non ricordavo bene come fosse sistemata all’epoca, ma certo hanno dipinto due bellissime immagini sui lati della piccola cappella dove probabilmente in origine trovavano posto due affreschi; e sopra l’altare sono stati disegnati simboli esoterici con quelli che sembrano essere teschi umani. Mi sono concentrato soprattutto su questa parte della Villa e ho lasciato le briciole agli altri ambienti: le due immagini che riprendono per intero la cappella sono molto simili, ma la prima (la più estesa) è ripresa con l’Irix 11mm e poi leggermente croppata, mente la seconda è scattata con il 15-35 F/2.8 alla focale più ampia. Un’altra perla alla mia collezione di chiese abbandonate.
Il patrimonio religioso in Italia è clamoroso, il patrimonio religioso abbandonato in Italia è molto importante. E tutte le volte che varco il portone di un edificio religioso decadente mi chiedo come possa essere possibile con la pioggia di milioni di euro che vengono recapitati nelle casse del Vaticano tutti gli anni. E’ un’assurdità. Questa è quella che ho definito La Chiesa dei due mondi per un collegamento davvero storico e interessante con il grande condottiero in camicia rossa. Quando siamo entrati (mi trovavo con un manipolo di urbexer di alto livello) abbiamo subito notato la luce che filtrava attraverso la finestra circolare e abbiamo cercato di esaltare l’effetto alzando ingenti quantità di polvere: alla fine dell’operazione sembravo un muratore bergamasco al termine della giornata lavorativa; sono piccoli, ma importanti, trucchi del mestiere. Ma al momento dello scatto c’era sempre qualcuno davanti: in urbex quando si va in coppia si è in troppi. In quattro è una folla enorme.
Sono passati quasi tre anni dal mio reportage sul palazzo dei Conti Morra. E all’epoca la piccola chiesa che si affaccia nel giardino di quello che gli abitanti della zona chiamano il castello mi era sfuggita. E mi sono visto costretto a tornare, per forza, obbligatorio. Ho dovuto impiegare tutta la mia abilità per evitare gli escrementi di piccioni (e rientrato a casa ho dovuto disinfettare il treppiede), però il gioco è valso la candela, almeno in questo caso: perché questa minuscola chiesetta (è davvero piccola) merita il viaggio e tutte le attenzioni che le ho dedicato. Sporca, ma semplicemente delicata.
Sulla croce che domina il Sass Pordoi c’è un targa con una scritta particolare: “Cercate le cose di lassù. 50° Anniversario 1962-2012”. E’ stata aggiunta, e si capisce, nel 2012. E pensare che da quasi 60 anni (l’anno prossimo) questa croce domina una delle più conosciute cime delle Dolomiti è tristemente aberrante. Il tema delle croci in vetta alle nostre montagne è dibattuto da tempo e non può lasciare indifferenti soprattutto in un paese che si professa laico. E’ una delle cose al quale non si pensa mai, eppure nella natura incontaminata si continuano a costruire gigantesche strutture in metallo, plastica, cemento e vetroresina, generalmente di rara bruttezza (e pericolosità). Non confondiamo l’immanente con il trascendente. Ogni giorno che passa è un giorno perso: iniziamo a decrocifiggere la montagna.
Non c’è vetta di monte che non sia stata marcata da un qualche simbolo religioso, il crocifisso in testa a tutti, soprattutto nel nostro paese. La sommità delle montagne è stata luogo privilegiato della trascendenza, metafora dell’ascesa al cielo, sentiero di purificazione interiore. È sembrato perciò normale appropriarsi di questi vertici, della loro potente suggestione per veicolare il sacro. Allora percuoterli, scavarli, cementificarli per collocarvi sopra una più o meno grande croce è parso ovvio, una testimonianza di fede, un luogo privilegiato per il contatto col divino.
Sono solo e mi avvicino, in religioso silenzio, a quella che nel secolo scorso era la Certosa della Motta Grossa. Qui una volta c’era un importante convento di clausura. Nel 1903 a seguito di leggi che soppressero le case monastiche, la comunità certosina femminile di Bastide Sainte Pierre a Montauban nella Garonna in Francia, dovette abbandonare il proprio convento trovando rifugio in Italia, presso un antico castello di Riva di Pinerolo chiamato Motta Trucchetti.
La struttura monastica è composta da un enorme edificio eretto su due livelli, al centro si trova la Chiesa del quale ormai non rimane più nulla: anche il bellissimo crocifisso ligneo è sparito. Al piano superiore un lunghissimo corridoio porta alle celle dove vivevano le sorelle. Le monache rimasero nel convento sino al 1998 anno in cui si trasferirono alla certosa di Vedana lasciando il complesso monastico all’Istituto diocesano per il sostentamento clero di Torino. Da quel giorno la Motta Grossa è in stato di completo abbandono, preda dei vandali che hanno distrutto tutto il possibile. Oggi è un luogo vuoto e spettrale, svetta tra la fitta vegetazione che quasi ne impedisce l’accesso; il cancello arrugginito è rimasto come ultima, ma inutile protezione.
Quando si dice dimenticato da dio. Il significato è decisamente chiaro: sperduto, isolato, disabitato, squallido, desolato. Teologicamente parlando è impossibile, dicono che se Dio smettesse per un attimo di desiderare l’esistenza di un qualsiasi mio capello, esso cadrebbe immediatamente nel nulla. Poi se parliamo di una chiesa il significato acquisisce un significato ancora meno tangibile. Eppure quando penso alla Chiesa del Cristo sdraiato è proprio il concetto di dimenticato da dio che mi viene in mente. Siamo in una valle sperduta dell’appenino Emiliano, in provincia di Piacenza, intorno a noi è il deserto. Per arrivare si deve percorrere una lunga strada sterrata che il pensiero è quello di finire nel nulla. Ed in effetti è quella la sensazione quando si arriva alla meta: la chiesa cade a pezzi, è recintata, abbandonata, solitaria. Perché costruire qui un’opera del genere? E’ un mistero, ma la fede non si spiega. Capisco l’ascetismo, ma a tutto c’è un limite. All’interno si vive in un mondo irreale, immobile, il tempo si è davvero fermato in un istante, come se gli orologi avessero smesso di colpo di funzionare. I motivi purtroppo sono facilmente comprensibili.
E quando si esce la domanda che risuona è sempre la stessa: ma perchè?