Water Tower

POSTED ON 5 Lug 2023 IN City & Architecture     TAGS: industrial, sky

La torre dell'acquedotto

Gemma di Riso

POSTED ON 27 Apr 2023 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial

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Quando si visita una villa abbandonata, oppure un’abitazione privata, si capiscono e percepiscono le persone che l’hanno vissuta. Il loro stile di vita, le loro passioni, come si vestivano. È un gioco di ricerca a ritroso nel tempo, è una specie di causa/effetto per molti versi anche intrigante e affascinante. Nell’urbex industriale la partita è completamente diversa, perché sono luoghi meno intimi, il rovescio della medaglia consiste in una ricostruzione più semplice della storia: gli elementi sono pochi e generalmente più basici.

Nel caso di questa piccola azienda per la produzione di riso (non vi nascondo ovviamente che siamo nella zona del Vercellese) ho trovato però un paio di elementi decisamente destabilizzanti e fuori luogo. Perchè in mezzo agli uffici, ai magazzini per lo stoccaggio, i bagni, i macchinari e le solite immagini religiose, abbiamo trovato un motoscafo e un calciobalilla. Quest’ultimo decisamente affascinante: immaginare i dipendenti, che finito l’orario di lavoro, oppure in pausa, si sfidavano a partite di biliardino fa pensare ad un’atmosfera molto famigliare e serena.

Ma il motoscafo? Cioè, capisco le risaie allagate, ma il motoscafo? Devo ammettere che quando l’ho visto sono rimasto decisamente perplesso; mi sono immaginato l’utilizzo del motoscafo come mezzo per muoversi nelle risaie al fine controllare le piantagioni; ovviamente sto scherzando (meglio dirlo prima che qualcuno mi prenda sul serio), certo una passione per il mare e la motonautica del titolare potrebbe essere. L’unica soluzione plausibile all’indovinello. E niente, ci sto ancora pensando adesso.

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La palazzina Liberty di Ferrania

POSTED ON 1 Apr 2023 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial, liberty, drone

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Di fronte alla vecchia fabbrica della Ferrania trova spazio una strana palazzina in stile liberty. È la centrale Elettrica SIPE, ormai abbandonata da tempo e vincolata dalla Soprintendenza ligure dal 2016. È bellissima. Costruita nel 1916 su progetto dell’architetto milanese Cesare Mazzocchi mostra ancora la sua antica bellezza, nonostante sia dimenticata da anni, con le meravigliose decorazioni geometriche, gli enormi finestroni e il ferro battuto. I disegni originali del progetto -studiati da Alberto Manzini- sono conservati presso l’archivio del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (MART) e riprodotti presso il Ferrania Film Museum.

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Ferrania, la storia dimenticata

POSTED ON 31 Mar 2023 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial, drone

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La storia della Ferrania nasce nel secolo scorso e si dipana in quasi 100 anni di storia. Sulla pellicola prodotta in questo stabilimento della Valle Bormida è scritta la storia d’Italia: La ciociara, Mamma Roma, Roma città aperta hanno in comune non solo l’ambientazione romana, ma sono tre capolavori del cinema italiano uniti anche dalla pellicola che porta il nome del piccolo paese alle spalle di Savona.

L’azienda nasce dalle ceneri della milanese Società italiana di prodotti esplodenti (Sipe), fornitrice dell’Esercito e della Marina, che nel 1906 acquisì un dinamitificio francese di Cengio, ponendo le basi perché la Val Bormida diventasse un importante polo dell’industria chimica nazionale. Con il primo conflitto mondiale, Sipe arrivò a produrre fino a 100 tonnellate di esplosivo al giorno e fu così che si espanse aprendo, nel 1915, lo stabilimento di Ferrania.

Dopo la guerra la produzione fu convertita: la nitrocellulosa, a un grado minore di nitrazione, unita alla canfora come plastificante, da esplosivo diviene pellicola. È la svolta, nacque la Fabbrica italiana lamine Milano (Film) consociata con la Pathé Frères di Vincennes, la maggiore fabbrica francese di materiale sensibile, fondando, nel 1923, quella che poi sarebbe diventata la Ferrania. Nel 1932 venne assorbita la milanese Capelli dando vita alla Film Cappelli–Ferrania, successivamente venne assorbita un’altra azienda milanese, la Tensi, e nel 1938 la ragione sociale venne modificata, diventando semplicemente Ferrania. L’azienda produceva, oltre alla pellicola, anche attrezzatura fotografica tramite la Società Anonima Apparecchi Fotografici Ferrania con il marchio Ferrania-Galileo; alcuni modelli, come la Condor I, o la Elioflex (del 1950), sono diventati iconici e hanno costruito la storia della fotografia italiana (e non solo). L’azienda arrivò anche a pubblicare, dal 1947 al 1967, una rivista, un periodico che si occupava di fotografia e che portava il nome dell’azienda.

Lo scenario tornò internazionale nel 1964: dopo un anno di trattative, il colosso americano 3M (Minnesota Mining and Manufacturing) rilevò Ferrania dall’Ifi per 50 milioni di dollari, corrisposti in parte in azioni. A guidare la società nel trentennio successivo saranno diversi manager del gruppo 3M, tutti americani, affiancati da Direttori di fabbrica italiani. Nel 1971 divenne 3M Italia, con quasi 4mila dipendenti nella sola Ferrania e una nuova sede a Segrate, in provincia di Milano. Negli Anni 80 e 90 Ferrania fu parte integrante della multinazionale; lo stabilimento non produceva soltanto pellicole per il cinema, ma anche per il settore medico, nel campo della diagnostica per immagini. La forza lavoro scese progressivamente, fino a tornare sotto le 2mila unità.

Nel 1996 iniziò il declino, 3M smise di produrre materiale fotosensibile e trasferì i settori della pellicola e del magnetico a una nuova compagnia indipendente, con sede americana, che prese il nome di Imation. Ci fu una contrazione degli investimenti con la chiusura di diversi stabilimenti europei. Nel 2004, con 850 dipendenti e 70 milioni di debiti, Ferrania fu posta in amministrazione straordinaria. Ci fu una mobilitazione di massa, ma ormai la strada era tracciata. Nel 2005 la fabbrica venne acquistata all’asta da una cordata di imprenditori genovesi, che diede vita a Ferrania Technologies, per la produzione di pannelli fotovoltaici, intermedi farmaceutici, chimica per imaging. Ma la stagione del fotosensibile, con l’avvento del digitale, era definitivamente terminata. Si cessò la produzione della pellicola e i pochi lavoratori rimasti vennero posti in mobilità, fino alla definitiva chiusura. Nel 2018 è stato inaugurato a Cairo Montenotte il Ferrania Film Museum, che mostra e racconta la storia e le dinamiche socioculturali della Ferrania. Nel 2019 con il forte ritorno della pellicola e del vintage, una nuova azienda, fondata da Nicola Baldini e Marco Pagni, ha ripreso a produrre, nello stabilimento FILM Ferrania di Cairo Montenotte, una nuova versione della celebre P30. Sono piccoli frammenti di memoria, un ritorno al passato, per non dimenticare una storia davvero importante.

Questo è un piccolo resoconto della storia della Ferrania, con una semplice ricerca è possibile approfondire in modo ulteriore i pochi importanti concetti che ho riportato. Il mio reportage sulla Ferrania mi piace definirlo, un po’ pomposamente, monumentale: in 3 diverse esplorazioni divise in 4 anni, con 2 fotocamere diverse, un drone e 5 ottiche, ho scattato 606 foto. Ne pubblico solo 82, sul quale, diversamente dal solito, ho forzato in modo forse eccessivo la post. Credo possano raccontare la situazione attuale di uno stabilimento che ha vissuto un secolo di emozioni, anche e soprattutto su pellicola.

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Officine di Sordevolo

POSTED ON 21 Mar 2023 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial

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Ci sono realtà industriali che hanno fatto la storia del nostro paese e poi dal nulla vengono inghiottite dall’oblio in pochi istanti. Le officine di Sordevolo nascono come Stabilimento Meccanico Romano & Pidello nel 1927, fondate, in un periodo storico decisamente complicato, da Luigi Romano, specialista della ricerca e dell’organizzazione tecnica (alcuni brevetti FIAT portano il suo nome) e da Andrea Pidello, uomo brillante e di buona cultura, esperto in organizzazione industriale e commerciale.

Nel 1927 la fabbrica lavorava ormai a pieno ritmo: l’ora dell’inaugurazione era giunta. Purtroppo fu l’ora della tragedia. Un mattino di gennaio Andrea Pidello passava in rassegna la fabbrica, percorreva reparti e saloni, controllava il procedere del lavoro. Nel salone maggiore, per la metà occupato dai torni, volle controllare il funzionamento di una puleggia della trasmissione; vi salì con la scala a pioli: in un baleno il congegno lo afferrò per l’abito e, sbattuto contro la scala, cadde sul pavimento di cemento. L’infortunio era stato tanto fulmineo che neppure tutti si erano resi conto dell’accaduto e nessuno fece in tempo a intervenire. Ricoverato in ospedale, Andrea Pidello moriva dopo lunghi giorni di sofferenza e di cure inefficaci. Nel cimitero di Sordevolo, la lapide funeraria porta inciso: «Fatale disgrazia troncò sul lavoro la vita buona intelligente operosa – Pidello Andrea – 1890-1927».

La produzione principale si qualificava nel settore automobilistico, in particolare degli ingranaggi, delle coppie pignone-corona, dei cambi di marcia: nell’Agosto del 1933 Sua Altezza Reale Adalberto di Savoia, Duca di Bergamo, venne in visita allo stabilimento e volle provare il cambio Sistema RP: ne fu talmente soddisfatto che decise di montarlo sulla sua vettura personale. In quegli anni la produzione aumentò notevolmente anche grazie agli ordini governativi per le forniture della guerra coloniale di Abissinia; entrò in azienda Costanzo Sormano, molto noto come esponente dell’establishment fascista biellese: la ditta assunse la forma giuridica e la denominazione di “Società Anonima Officine di Sordevolo”. Dopo la crisi della seconda guerra mondiale, e il primo difficile periodo di ricostruzione, le Officine ripresero la lavorare a pieno ritmo anche grazie agli aiuti e alle sovvenzioni del Piano Marshall, provvedimento finanziato dagli Stati Uniti per il sostegno della ripresa dell’economia e del sistema produttivo dell’Europa libera.

Nel 1972 ci fu un cambio di proprietà, una ditta torinese specializzata in ricambi rilevò le quote di maggioranza, ci fu una ristrutturazione, ma il declino fu lento e inesorabile e portò le storiche Officine di Sordevolo alla chiusura alla fine del secolo scorso. Un’altra azienda storica del tessuto industriale del nostro paese dovette cessare l’attività. E pensare che negli anni di pieno sviluppo lo stabilimento aveva occupato sino a 200 dipendenti, su una linea produttiva che partiva dalle barre di ferro grezzo e di acciaio per giungere al prodotto finito. Oggi il celebre Stabilimento Meccanico Romano & Pidello è uno scheletro abbandonato a se stesso, qui vive il ricordo di un paese e di una fabbrica che ha vissuto con entusiasmo e vigore la storia del secolo scorso attraverso il fascismo, la seconda guerra mondiale, la ricostruzione e la crisi. Ad Maiora Sperem

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Dodecaedro magico

POSTED ON 30 Gen 2023 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial, drone

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Il gasometro di Brescia fu costruito nel 1933; è alto quasi 50 metri ed ha un diametro di 28. Quando in funzione serviva per lo stoccaggio del gas di città, definito illuminante, che nel secolo scorso è stato progressivamente sostituito. Durante la seconda guerra mondiale fu bombardato e seriamente danneggiato in quanto obbiettivo sensibile, nonostante le difficoltà economiche venne ripristinato e tornò in funzione, ma divenne presto obsoleto per l’arrivo del gas metano; fu utilizzato solo parzialmente fino alla dismissione definitiva avvenuta nel 1989.

Negli ultimi 30 anni sono stati presentati diversi progetti per un’utilizzo alternativo: ci fu anche un concorso nazionale, nessun progetto risultò fattibile e convincente. L’architetto Gino Bozzetti, noto per i recuperi realizzati in centro città, ebbe l’idea di trasformare il gasometro in un ambiente per mostre, gli architetti Annalisa Taurchini e Roberto Spinoni, laureatisi con una tesi proprio sul gasometro di Brescia come reperto di archeologia industriale, proposero di farne un archivio, fu anche proposto di collocare nel gasometro un museo della tecnica, ma nessuna di queste proposte ha avuto un riscontro positivo. Ad oggi il gasometro è un oggetto di archeologia industriale in attesa che si riesca a trovare una nuova destinazione d’uso.

Mi piace definirlo dodecaedro magico perché da fuori è interessante, ma quando entri dentro è magia pura, come essere protagonisti di un film di fantascienza: il suono che arriva ovattato dall’esterno, la luminosità decisamente scarsa e particolare, la forma a 12 lati, i colori attenuati, tutto contribuisce a creare un’aura davvero emozionante che sembra portarti in un mondo parallelo. Sarebbe bello fosse rimesso a lucido, in sicurezza e utilizzato come monumento visitabile: un retaggio, diversamente bello, del nostro passato.

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ThyssenKrupp 6 dicembre 2007

POSTED ON 6 Dic 2022 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial

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Entrare nella ThyssenKrupp è stata un’esperienza diversa dalle altre. Raramente, quasi mai, mi capita di sentire paura, ma in questa fabbrica devastata dal ricordo una sensazione di fastidio ha preso il sopravvento: non sono riuscito in nessun modo a fotografare con calma. Un’agitazione strana si è impossessata del mio cervello e ho scattato con un’ansia che non avevo mai provato. La condizione psicologica è stata influenzata, ovviamente, dalle voci che raccontavano di persone poco raccomandabili all’interno e in precedenza io stesso avevo visto un paio di energumeni aggirarsi per capannoni in modo sospetto, ma la tentazione è stata troppo forte e sono dovuto tornare.

Nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 gli addetti alla linea 5 dello stabilimento di Torino erano in attesa di riavviare l’impianto dopo un fermo tecnico per manutenzione. Trentacinque minuti dopo la mezzanotte l’impianto venne riavviato. In prossimità della raddrizzatrice, un irregolare scorrimento del nastro contro la carpenteria metallica (causato da una non precisa centratura del nastro stesso) produsse un forte attrito che innescò prima delle scintille e quindi un incendio dovuto principalmente alla presenza di carta intrisa di olio. L’addetto alla linea, rendendosi conto delle fiamme, si recò di corsa verso la sala di controllo per dare l’allarme: tutto il personale si precipitò quindi a tentare di spegnere l’incendio. Vennero prelevati gli estintori presenti lungo la linea, ma il loro impiego non riuscì a domare le fiamme; l’incendio si stava alimentando a causa della carta intrisa d’olio, della segatura, utilizzata sempre per assorbire l’olio, e di altra sporcizia. Si pensò allora di servirsi delle manichette antincendio e, mentre l’unico sopravvissuto era in attesa del nulla osta per poter aprire l’acqua, le fiamme danneggiarono un tubo flessibile dell’impianto idraulico oleodinamico da cui fuoriuscì dell’olio ad alta pressione nebulizzato, che immediatamente si incendiò come una grande nube (fenomeno del flash fire) investendo sette lavoratori.

Era mezzanotte e 53 minuti del 6 dicembre 2007: sono passati 15 anni da quella terribile notte, ma il ricordo è ancora vivo e non dovrà morire mai. Voglio ricordare i nomi delle 7 persone che hanno perso la vita cercando di domare l’incendio che divampò alla linea 5: Antonio Schiavone, 36 anni, Roberto Scola, 32 anni, Angelo Laurino, 43 anni, Bruno Santino, 26 anni, Rocco Marzo, 54 anni, Rosario Rodinò, 26 anni, Giuseppe Demasi, 26 anni. In Italia le statistiche delle cosiddette morti bianche sono in miglioramento costante, ma comunque ancora oggi muoiono circa 700 lavoratori all’anno e probabilmente i dati non sono precisi, ma leggermente sottostimati. Non conosco nessuna ricetta per fermare questa guerra, ma credo che ricordare e non dimenticare tragedie come l’incidente della ThyssenKrupp possa permettere di tenere alta l’attenzione e salvare vite umane. Non dimenticare.

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[…] i caduti sul lavoro non sono una sorpresa, la ThyssenKrupp con il suo interminabile elenco di morti, l’ultimo proprio oggi, è solo l’ennesimo episodio. Le pene vanno fortemente inasprite e gli ispettori vanno aumentati. Chi fa morire per incuria un operaio deve finire in galera senza nessuno sconto e senza nessun indulto.
– Antonio Di Pietro

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Lingotto Padiglione 2

POSTED ON 27 Ott 2022 IN City & Architecture, Landmark, Reportage     TAGS: industrial, drone

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Ho visitato il padiglione 2 del Lingotto la scorsa estate con il gruppo di Giroinfoto. È stata un’esperienza decisamente complicata, perché catturare idee e spunti fotografici in una struttura industriale (e vuota) come il Padiglione 2 non è affatto semplice. Io ho trovato terribilmente affascinanti le rampe che portano alla pista sopraelevata, architettonicamente perfette e quasi esoteriche: inebriante cemento allo stato puro. Purtroppo non siamo riusciti a salire sul tetto (nonostante le insistenze) perché quel giorno la pista era chiusa per lavori e, ovviamente, abbiamo mancato anche la bolla di Renzo Piano. Peccato, mi sono dovuto accontentare di un volo, con ogni probabilità illegale, con il Drone.

Per Torino e i torinesi, il Lingotto rappresenta tanto. Per i più giovani, il Lingotto è un centro commerciale e fieristico dove svagarsi mentre per i più anziani è un pezzo di storia dell’industria italiana. Si, perché il Lingotto è questo: la più grande fabbrica di automobili italiana riconvertita in un centro multifunzionale; il Lingotto è una bella storia di rinascita all’italiana resa possibile da investitori scaltri e dai migliori architetti del Bel Paese. Ma forse non tutti sanno che, prima di tutto, il Lingotto, è un quartiere a Sud della città di Torino.

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Ex Industrial

POSTED ON 10 Lug 2022 IN City & Architecture     TAGS: industrial

Ex Industrial

Archeologia industriale del cemento

POSTED ON 3 Giu 2022 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial, drone

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Nel 1980 il ministero dei Beni Culturali ha riconosciuto il cementificio di Alzano Lombardo come bene di interesse culturale e lo ha sottoposto a vincolo. Si, perché questa struttura rappresenta una parte importante dell’industria italiana: nasce nel 1883 e per 70 anni è stato il fiore all’occhiello della società Italcementi. È un monumento non solo per quello che ha rappresentato, ma anche per come è stato costruito: nella sua edificazione furono utilizzati quasi esclusivamente materiali che venivano prodotti dalla stessa (cemento grigio, cemento bianco, Portland e Grenoble a pronta presa).

La storia delle Officine Pesenti inizia nel 1883 grazie ai fratelli Carlo, Pietro, Cesare, Daniele e Augusto Pesenti (quest’ultimo già ricordato per Villa Camilla). Il ruolo più importante però è senz’altro da attribuire a Cesare, perché fu lui, ingegnere di assoluto livello, a definire sul piano tecnico la costruzione della fabbrica, ma soprattutto fui lui a concepire il ciclo tecnologico produttivo basandosi sui modelli francesi e studiando (e migliorando) l’efficienza produttiva dei forni verticali più diffusi dell’epoca.

Il cementificio Pesenti è un documento importante e fondamentale della storia industriale italiana: fu l’unico cementificio a produrre il cemento naturale fino al 1966 (anno di spegnimento dei forni). Nel tempo si cercò di ammodernarlo fin dove fu possibile per tenere il passo con le nuove tecnologie, ma per come era stato pensato e costruito (in modo dichiaratamente sperimentale da Cesare Pesenti che testò sulla struttura la qualità e la durata della produzione) il cementificio era talmente grande e poco flessibile che l’unica soluzione possibile fu la chiusura definitiva. Da oltre 40 anni è un vero e proprio monumento, purtroppo non visitabile: qualcosa nell’ultimo decennio è stato organizzato, ma la pericolosità e il rischio crolli impediscono qualsiasi forma di turismo sicuro. Dobbiamo accontentarci dell’opera di pochi valorosi e temerari amanti dell’urbex che testimoniano con foto e video un pezzo importante della storia industriale, e non solo, del nostro paese.

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Carrello Nr.1063

POSTED ON 30 Mag 2022 IN City & Architecture     TAGS: industrial, sky, clouds, 50ne

Carrello Nr.1063

Ex Autoparco Militare di Cambiano

POSTED ON 16 Feb 2022 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial

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Ci sono luoghi abbandonati che si riempiono di fascino, vita e lasciano a bocca aperta. Poi ci sono invece location meno interessanti dal punto di vista emozionale, ma che io ritengo altrettanto importanti dal punto di vista fotografico e, perché no, anche storico. L’Ex Autoparco Militare di Cambiano fa sicuramente parte di questa seconda categoria di esplorazioni: perché se da un lato non nasconde nulla di tangibile, di immediatamente riconducibile all’uomo, dall’altro lato mette in mostra una bellezza e una fotogenia da non sottovalutare. Questo enorme spazio (oggi di proprietà del demanio) nasce come campo d’aviazione a inizio Novecento, per poi essere trasformato in parco per veicoli militari negli anni della Guerra Fredda. Quindi il declino, specialmente negli ultimi anni: quell’enorme area abbandonata rappresenta un pezzo di storia di Cambiano che non si può e non si deve dimenticare. Torna ciclicamente nelle cronache dei giornali locali, ma rimane immobile e abbandonato da tempo. E’ una memoria assolutamente da conservare cercando una nuova destinazione e una nuova vita.

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La Fabbrica dei Rave

POSTED ON 26 Nov 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial

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Non ho molte informazioni su questa piccola struttura industriale alle porte di Torino. Sicuramente si tratta di una vecchia fonderia dismessa ormai da tantissimi anni e adesso in mano agli artisti del graffito. Le uniche informazioni che si trovano in rete riguardano un rave party organizzato alla mezzanotte di sabato 12 marzo 2016 e concluso con l’intervento delle forze dell’ordine allertate dall’altissimo volume della musica e dalla quantità sospetta di autovetture parcheggiate di fronte all’ex fonderia. Il tutto si è concluso con 118 denunciati. Che poi in un posto del genere dedicarsi alla musica e al divertimento, magari dopo aver non solo bevuto, lo trovo abbastanza pericoloso: tutto l’edificio è pericolante e le scale non possono garantire standard di sicurezza adeguati. Non voglio parlare delle norme igienico-sanitarie. :-)

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Il Titano caduto

POSTED ON 19 Ott 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial

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Fortunato Postiglione è stato il fondatore della ILTE nel 1947, con sede in Corso Bramante a Torino. All’epoca si chiamava ancora Istituto del libro italiano S.r.l.. Fu trasformata in ILTE (Industria Libraria Tipografica Editrice) il 31 ottobre 1951 per iniziativa della Sip, la Società Italiana per l’Esercizio Telefonico, a capitali statali, che necessitava di una stamperia capace di soddisfare le esigenze dettate dalla produzione delle Pagine Gialle e degli elenchi telefonici per un’utenza costantemente in crescita come quella dell’Italia del secondo dopoguerra. Nel 1975 l’azienda venne trasferita nel più moderno impianto di Moncalieri e la via sul quale si affacciava il cancello di ingresso venne dedicata a Fortunato Postiglione. Il Gruppo, che annoverava nel 2008 un fatturato superiore a 194 milioni di euro e oltre 1000 dipendenti, negli anni successivi ha conosciuto una certa riduzione delle commesse in seguito alla crisi economica globale, venendo costretto a una sensibile riduzione del personale, sino al fallimento fra il 2015 e il 2017. Nel 2021 è uno scheletro vuoto che rischia di collassare su se stesso. Queste foto sono il frutto di 36 mesi di lavoro, detta così sembra brillante, ma in realtà è semplicemente il tempo trascorso fra la prima e l’ultima esplorazione: un’esplorazione iniziata all’alba e finita al tramonto di tre inverni dopo. Purtroppo non ero mai riuscito a completare fotograficamente l’intera (enorme) struttura e nello trascorrere del tempo mi sono perso sicuramente qualche ricordo e qualche cimelio. Ho deciso di pubblicare ben 63 foto e rappresentano solo una piccola parte di quello che oggi è Industria Libraria Tipografica Editrice: il Titano caduto, come viene definita da chi l’ha vissuta.

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Ex vetreria di Vernante

POSTED ON 10 Mar 2021 IN Reportage     TAGS: urbex, industrial

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La vetreria di Vernante, piccolo paese alle porte di Limone Piemonte, è chiusa dal 1978. Sono passati oltre 40 anni dall’ultimo giorno di lavoro di una delle realtà più importanti della zona: nel periodo di massimo sviluppo la produzione era a ciclo continuo, senza soluzione di continuità, 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.

Qui venivano prodotte fino a 80 tonnellate di vetro al giorno e lavoravano 200 operai. La fabbrica era stata fondata alla fine degli anni ’40 da un gruppo di vetrai e imprenditori della zona che avevano scelto Vernante per la vicinanza alle cave di silice e per l’abbondanza di acqua. La struttura dopo il periodo iniziale aveva iniziato ad espandersi sino ad arrivare all’attuale superficie di 30000 metri quadrati: all’interno la parte importante era dedicata alla produzione del vetro con due forni su due piani e un enorme magazzino per lo stoccaggio delle lastre. C’era anche spazio per un laboratorio di chimica, per la falegnameria interna adibita alla costruzione degli imballaggi e, ovviamente, per gli uffici amministrativi e commerciali.

Nel 1974 l’azienda venne ceduta alla PPG (Pittsburg Plate Glass) che possedeva anche uno stabilimento a Salerno. Il gruppo prese il nome di Vernante Pennitalia. L’interesse degli Americani era però soprattutto rivolto alla sede di Cuneo che era stata aperta qualche anno prima: a Vernante la tecnologia era ormai superata e non era possibile modernizzare la produzione. I forni vennero spenti uno dopo l’altro, gli operai pre-pensionati oppure trasferiti e nel febbraio del 1978 la produzione venne chiusa. Nel 2012 il comune ha rimosso l’amianto dai tetti della fabbrica, oggi la Vetreria è uno scheletro che cede giorno dopo giorno il suo spazio alla natura.

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Calo di Zuccheri

POSTED ON 28 Feb 2021 IN Reportage     TAGS: URBEX, industrial

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Ci sono luoghi abbandonati che lo sono da talmente tanto tempo che ormai fanno parte del paesaggio. Diventa una caratteristica e gli abitanti della zona si dimenticano dell’esistenza, come se fosse naturale: perché quando sono nati quella struttura era già in decadenza, già inutilizzata, e diventa fisiologica la presenza. Eppure lo Zuccherificio di Spinetta Marengo non è proprio invisibile, anzi: occupa un’area dismessa di più di 82.000 metri quadri. Dopo varie vicissitudini venne abbandonato al suo destino nel 1980 e la produzione (con tutti i macchinari) trasferita a Casei Gerola. Oggi è rimasto quasi nulla, i muri, le rovine: l’unica parte interessante è il secondo piano dove si trovava quello che probabilmente era una specie di laboratorio e dove sono ancora presenti i piani di lavoro ciascuno dotato del proprio lavello: almeno quello che ne rimane. Da oltre 40 anni si parla di recupero, nel 2006 era entrato a far parte di un progetto interessante di riqualificazione e l’area dello zuccherificio si sarebbe dovuta trasformare in un centro commerciale ad opera di Coop7 ed Esselunga.

Il centro commerciale si fa, poco distante, ma intanto nel 2008, grazie ai rilevamenti effettuati per la costruzione del centro commerciale, si scopre che le falde acquifere di tutta Spinetta Marengo sono inquinate al massimo livello e bloccano i lavori di ampliamento; nel frattempo il progetto Coop7 ed Esselunga ha anche il tempo di fallire, viene salvato con l’intervento dello stato e finisce nell’inchiesta “Alchemia” per sospetti legami con la ‘ndrangheta.

Il destino dello Zuccherificio purtroppo è segnato: rimane un enorme ricordo di architettura industriale del secolo scorso, un pezzo di storia del nostro paese destinato con il tempo a crollare su se stesso.

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